Il titolo che gli si addiceva era proprio quello di senatore. Non come sono di solito i senatori di ceppo siciliano, cioè propriamente indigeno, piccolini di statura, con gli occhi un po’ gonfi di sonno, pallidi e trafelati dall’ansia di amministrare il proprio feudo elettorale. Verzotto non aveva più bisogno di contare i voti e difenderseli
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Cerchiamo di fare alcuni calcoli molto semplici e molto precisi. Cioè cerchiamo di volgere la politica in matematica. Nel 1950, anno in cui, conclusa la guerra di Corea, gli Stati Uniti riaprirono le loro esportazioni di zolfo sul mercato mondiale, le zolfare siciliane entrarono in crisi definitiva e irreversibile.
Lo zolfo americano, pompato con una sonda dalle viscere della montagna, veniva offerto ad un prezzo quasi irrisorio, lo zolfo siciliano scavato in miniera a forza di picconi, trasportato in galleria sui carrelli tirati dagli asini, e portato in superficie con traballanti ascensori, costava dieci o venti volte di più. E non era nemmeno migliore.
Lentamente le zolfare siciliane perdettero la loro clientela internazionale, poi via via che il sistema dei trasporti navali diventava più rapido ed economico, perdettero anche la clientela nazionale. Lavoravano, producevano zolfo, ma nessuno lo comperava. In quel tempo le miniere siciliane in attività erano sedici e i minatori in servizio quasi ottomila, il tutto concentrato in quel triangolo delle province di Caltanissetta, Enna ed Agrigento che ha rappresentato sempre il territorio più miserabile e spesso più tragico d’Europa.
La povertà, le malattie, le rivolte sociali, la sopraffazione mafiosa, la drammatica disparità fra la ricchezza di poche famiglie e la miseria di tutti gli altri, ed infine l’ignoranza, il dolore e la violenza, costituivano i tratti umani fondamentali di questo territorio. Le miniere in attività ora sono soltanto otto con duemila minatori, duecento impiegati e sette dirigenti. I distintivi sociali ed umani del territorio non sono modificati. Tragedia era, e tragedia è rimasta. Proseguiamo nel discorso.
Per trent’anni circa, queste miniere hanno continuato a produrre un minerale che nessuno comperava, o comperava solo in misura estremamente ridicola, a confronto della disperata fatica umana ch’esso costava. Cerchiamo di trovare un indice economico comune, per tutti questi anni, cioè assumiamo per vero il dato economico degli ultimi tempi, quando già alcune miniere erano chiuse, quando molti minatori erano ormai pensionati, e l’attività di molti impianti era stata modernizzata. Nell’ultimo anno sono state prodotte 214.000 tonnellate di zolfo.
Si è riuscito a vendere solo una miserabile parte, per un incasso di un miliardo e seicento milioni. Nel frattempo il costo di gestione delle miniere, tutto compreso, salari, stipendi, energia, riparazioni, macchine, materiali, manutenzione, trasporti, liquidazioni, è stato di oltre ventiquattro miliardi con un deficit certo di quasi ventidue miliardi e mezzo.
Questo è il dato inoppugnabile che non è un fatto politico, e come tale opinabile e imperfetto, ma una realtà che non può essere camuffata in alcun modo. Si potrebbe obiettare che venti o trenta, o dieci anni or sono i deficit erano di gran lunga inferiori, ma questa è una pura esercitazione dialettica sul valore della moneta.
Secondo la progressiva svalutazione la lira di venti o trent’anni or sono val bene le dieci lire di oggi. Moltiplichiamo allora il deficit odierno di gestione agli anni della crisi, da quell’oramai lontanissimo tempo in cui le bestie da tiro venivano calate in fondo alle miniere che erano ancora puledri e riemergevano ormai carogne con gli occhi ridotti a due piaghe sanguinose. Ad occhio e croce, al valore attuale, ne viene fuori una cifra spaventosa: quasi cinquecento miliardi!
Chi ha divorato questi soldi? Praticamente nessuno! Migliaia e migliaia di operai il cui lavoro avrebbe potuto essere altrimenti utile alla società e che invece per anni e per decenni hanno continuato a calarsi ogni giorno, per otto ore, nel buio, nel fango, nel freddo atroce della galleria, nel caldo soffocante delle caverne. e là hanno sprecato la loro vita, un terzo della loro vita nel buio, trasalendo se improvvisamente una trave scricchiolava, defecando, orinando negli angoli remoti.
Senza nemmeno potere fumare una sigaretta, senza alcuna altra prospettiva umana che quella schifosa pietra gialla da strappare con i picconi, l’esplosivo, le ruspe, le unghie. Un gioco assurdo perché tutto quello ch’essi facevano e pativano, i bronchi malati, gli occhi macerati dalla polvere, l’animo incupito dall’abitudine alla paura, tutto questo non valeva niente!
Tutti hanno contribuito a divorare quei soldi, anche i proprietari che hanno avuto gli indennizzi, i sindacati che hanno percepito una percentuale minuscola, ma inequivocabile, sulle paghe dei minatori, i tecnici che redigevano progetti di verticalizzazione, le industrie che li realizzavano, le imprese di manutenzione, l’Enel che forniva l’energia motrice, gli impiegati e i funzionari dell’Ente minerario siciliano, una struttura che fra i suoi compiti istituzionali ha avuto ed ha ancora quello di amministrare una pazzia.
Oh, tutti in buona fede, tutti convinti di lottare per il meglio, di difendere i diritti umani, d’essere paladini degli infelici, di far valere il proprio legittimo interesse civile. Centinaia di miliardi al vento. E in tutti questi anni niente è cambiato in quel triangolo della miseria, il dolore è rimasto dolore, chi era povero è rimasto povero, la violenza è rimasta violenza. Cerchiamo per un attimo di capire cosa si può costruire con cinquecento miliardi. Fantastichiamo!
Due grandi ospedali modernissimi, con almeno mille posti letto: poi ancora venti complessi scolastici, dieci campi di calcio e di atletica, dieci piscine, una diga per portare l’acqua nelle campagne dove non esiste un albero, dieci centri di allevamento bestiame, le condutture idriche e le fogne di dieci centri abitati, rimboschire le montagne dove non cresce un filo d’erba.
Opere che avrebbero potuto e dovuto essere costruite dagli stessi uomini che hanno gettato via un terzo della loro vita in fondo alle miniere, per niente. Un altro calcolo qui bisognerebbe fare, anch’esso fantastico, e ancora più terribile: quante centinaia di vite umane si sarebbero potute salvare se in quel territorio tragico ci fossero stati due grandi ospedali efficienti? E quante centi naia di bambini non sarebbero stati paralitici, storpi, deformi, babbei? E quante migliaia di sventurati che sono emigrati con la qualifica di manovali avrebbero potuto tentare la sorte con una specializzazione diversa e quanti esseri umani si sarebbero potuti sottrarre all’istinto o alla disperazione criminale, e quante migliaia di uomini sarebbero rimasti legati ad una campagna meno infame?
Chi ha mai detto che un minatore, destinato ad un lavoro da bestia settecento metri sottoterra, a produrre soltanto una pazzia. non debba poi potere e sapere lavorare, per lo stesso salario, sulla faccia della terra all’aria libera, a costruire strade, dighe, ospedali, scuole, a coltivare la terra, ad allevare bovini, a fare l’elettricista, il meccanico, lo stagnino? Oppure, proprio in nome della dignità umana, ci siamo tanti istupiditi e confusi da tornare indietro di trecento anni, ad una forma di razzismo sociale per la quale chi nasce barone ha da essere sempre barone, e chi è cafone, cafone invece deve morire?
E così chi è minatore, tale ha diritto d’essere per sempre. Sulla terra continui a sputare sangue solo e sempre chi nacque contadino. Oppure se ne vada a portare la sua disperazione per il mondo. Una demenza simile è stata delegata dalla classe politica siciliana all’Ente minerario.
Presidente, vicepresidenti, amministratori, cassieri, architetti, ingegneri, tecnici, funzionari, capuffici, impiegati, dattilografi una specie di summit ospedaliero di primati, medici, infermieri e portantini ai quali viene consegnato un pazzo: state attento perché questo si divora da solo, ha questa vocazione, curatelo bene, verticalizzandolo, insomma abbiate cura che si divori saggiamente, prima i piedi, poi gambe e ginocchi, poi testicoli e ombelico… Per alcuni anni, proprio gli anni ruggenti dell’EMS, presidente e simbolo dell’ente è stato il senatore Verzotto.
Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante sulle spalle, era anche visivamente il personaggio perfetto della vicenda. Venuto dalla scuola di Enrico Mattei, il più sottile cervello politico italiano del dopoguerra, non gli rassomigliava in niente: quanto quello era frettoloso, ansimante, sciatto, ruvido, tanto Verzotto era invece calmo, quasi regale, elegante e cortese.
Tanto Mattei era malinconico e dispotico, quanto Verzotto era disponibile all’humour ed all’opinione degli altri. In comune avevano la fantasia. Quella di Mattei basata sempre su certezze conquistate con disperata forza di volontà; quella di Verzotto invece su speranze e alleanze politiche. Il titolo che gli si addiceva era proprio quello di senatore. Non come sono di solito i senatori di ceppo siciliano, cioè propriamente indigeno, piccolini di statura, con gli occhi un po’ gonfi di sonno, pallidi e trafelati dall’ansia di amministrare il proprio feudo elettorale, firmare lettere, appagare gli elettori.
Verzotto non aveva più bisogno di contare i voti e difenderseli. Oltretutto sugli indigeni aveva il fascino del grande normanno, al quale la potenza deriva dalla sua stessa condizione. Per la magniloquenza del suo tratto era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta noncuranza ma anche di avere qua e là lampi di genio politico e chiaroveggenza manageriale. Quando il giudice emise l’ordine di cattura nei suoi confronti per peculato, dal suo confortevole esilio di Beirut il senatore Verzotto trasmise solo un indignato sospiro di delusione: «Come potete pensare che uno come me, che manovra centinaia di miliardi… basta un infantile gioco di prestigio politico, per farne sparire un paio…si vada poi a sporcare per poche centinaia di milioni!»
L’accusa era quella di avere depositato nove miliardi dell’Ente minerario in due banche di Sindona, in una delle quali egli era consigliere di amministrazione, e di percepire su quei nove miliardi, oltre agli interessi dovuti all’EMS, anche un’altra sua personale tangente di interessi. In realtà solo poche centinaia di milioni, un’inezia per un uomo al quale la politica aveva delegato il compito di amministrare una pazzia da centinaia di miliardi.
Verzotto è stato condannato a tre anni dal tribunale di Milano e non si sa dove sia, nel Medioriente o in Scandinavia; l’Ente minerario per il quale egli fece costruire un palazzo ministeriale, sulla strada per punta Raisi, continua a gestire le miniere esattamente come Verzotto le gestiva.
Per tre volte al giorno, i minatori percorrono quel lungo tunnel, camminando adagio nel fango, e tremando in quel vento furioso, poi montano su quella piattaforma oscillante che li porta settecento metri sottoterra, e laggiù percorrono altre gallerie sempre più basse e buie, s’infilano, arrampicano e disperdono in cunicoli fino alle caverne di produzione. E là scavano pietre.
Centinaia, migliaia di uomini che non si vedono neanche, disseminati in centinaia di cunicoli sotto la terra per portare sulla cima lo zolfo ed accumulano in montagne gialle sempre più alte, che nessuno vuole, nessuno compera. Per niente! Tutti i minatori che avevano raggiunto i cinquant’anni se ne sono andati in pensione, o in attesa di pensione con l’ottanta per cento del salario. Gli altri aspettano di arrivare a cinquant’anni. Molti però hanno ancora trenta o trentacinque anni.
Secondo logica l’ultimo a uscire dall’ultima miniera, sarà quello che ora è il più giovane, e andrà a gettare l’ultima pietra di zolfo su quella montagna gialla e triste nel cuore della Sicilia. Dalla quale non si sarà potuto fabbricare nemmeno un fiammifero: Pensate: un fiammifero da mille miliardi!
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