Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato


Il 28 aprile 1981 tra le mura dell’istituto di Marino del Tronto, Ascoli Piceno, c’è un gran fermento. Agenti del Sisde, il servizio segreto civile, si sono precipitati lì per parlare con il boss della camorra Raffaele Cutolo. L’assessore regionale ai Lavori pubblici della Campania Ciro Cirillo è da 24 ore nelle mani del commando brigatista che lo ha sequestrato il giorno prima a Torre del Greco.

In cinque hanno neutralizzato la scorta del politico democristiano, hanno ucciso l’autista e l’agente che lo protegge, ferito il segretario e sono fuggiti via con l’ostaggio. È una perfetta replica dell’agguato che tre anni prima aveva portato al sequestro e all’uccisione del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.

La Dc, questa volta, non si interroga: sceglie di trattare e subito. Non fa come nei cinquantacinque giorni del rapimento Moro, non si divide tra fermezza e cedimento. Questa volta cerca immediatamente un contatto. Ma non con i brigatisti. Cerca invece la mediazione della camorra. Gli incontri con Cutolo vanno avanti ancora per quattro giorni.

Con gli agenti del Sisde ci sono anche Vincenzo Casillo, braccio destro di Cutolo, che sarà poi accusato dell’omicidio del banchiere Roberto Calvi, ufficialmente latitante, e uno degli uomini di Cirillo. Ma poi, come accadrà ancora, è il Sismi, il servizio segreto militare, a occuparsi di proseguire il negoziato. Entrano in gioco il fratello massone della loggia P2 di Licio Gelli, il generale Pietro Musumeci, un suo fedelissimo, Adalberto Titta, e Francesco Pazienza, uomo dei Servizi e piduista.

Il 24 luglio del 1981 gli uomini di Giovanni Senzani, il sociologo dalla doppia vita che si era specializzato a Berkeley, lo studioso che aveva condotto una ricerca sulle carceri autorizzata dal ministero di Grazia e Giustizia, che insegnava all’università e guidava le Br, lasciano libero Cirillo.

Per i protagonisti di questa storia è ora di passare all’incasso. Casillo ottiene una nuova verginità: ora può girare con una tessera dei Servizi in tasca che non gli risparmierà di saltare in aria con un’autobomba due anni dopo, quando il clan di Carmine Alfieri e Pasquale Galasso lancerà l’offensiva definitiva contro i cutoliani. Le Br intascano un riscatto miliardario.

Con Cirillo, come avevano rivendicato, intendevano colpire al cuore il sistema di potere democristiano intorno all’affare della ricostruzione dopo il terremoto che aveva devastato l’Irpinia e sfregiato Napoli. Intendevano dimostrare al popolo che stavano dalla parte di chi pretendeva case decenti e subito. Insomma, volevano compiere un’operazione che avrebbe garantito loro consenso: per questo avevano scelto Cirillo, il simbolo del sistema urbanistico campano corrotto. Ma di questo obiettivo non rimane traccia quando la camorra di Cutolo si mette in moto per trattare con loro.

A quel punto basteranno i soldi. Le Br si accontenteranno di metterne in cassa un bel po’ per autofinanziarsi. L’atto dimostrativo del rapimento, l’apoteosi della ricerca di un plauso sociale, si trasformerà in un banale sequestro a scopo di estorsione, alla maniera dei criminali di lungo corso. I combattenti che vagheggiano la rivoluzione ragioneranno proprio come i camorristi.

Al Sismi c’è chi cancellerà le tracce dei contatti – che affioreranno solo molto tempo dopo – ma continuerà a trescare con la camorra. Solo Cutolo attenderà invano il prezzo dei suoi servigi, anche se i suoi uomini faranno incetta di appalti e lui avrà mano libera nello sbarazzarsi di chi, tra investigatori e agenti penitenziari, proverà a mettersi di traverso o infilare il naso nell’affare Cirillo.

Antonio Gava, sette volte ministro, capocorrente dell’assessore rapito, il leader dei dorotei, il “viceré”, già inseguito da più di un sospetto di associazione mafiosa e considerato il vero regista della triangolazione tra camorra, Br e Stato, nell’88 arriverà al vertice dell’Interno. Tra prescrizione e assoluzione piena, dopo tredici anni di processo, si scrollerà di dosso le accuse di ricettazione, mafia, per i rapporti con il clan Nuvoletta, e voto di scambio.

Morirà nel 2008 senza condanne e con un risarcimento milionario dello Stato per danno fisico, morale e di immagine, oltre che per i mancati guadagni da avvocato. E Senzani? Dopo aver ucciso Roberto Peci, il fratello di Patrizio, il primo pentito delle Br, finirà a dividere la cella con Ali Agca, l’attentatore di papa Wojtyla. Per lui, che alla fama di brigatista duro ha aggiunto l’aura di custode di segreti inconfessabili sulla linea di confine delle trattative tra Stato e mafia, naturalmente, non ci fu alcun negoziato con i Servizi. Tornato in libertà da qualche tempo, non nega ma glissa circa il ruolo della camorra.

Cutolo, invece, qualcosa l’ha detta. Mezze frasi, allusioni, com’è nello stile di quegli uomini, promettendo più silenzio che rivelazioni. Di recente ha annunciato di voler parlare, ne è nata una paginetta di verbale per dire del contributo offerto dalla camorra e non accolto dalla Dc per liberare Moro. Su Cirillo, invece, molto poco: «È stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna».

Finora ha dosato le ammissioni e chiede neanche troppo velatamente che intanto gli tolgano il 41 bis, il regime di carcere duro. A marzo 2015 la prima uscita: «Se parlo ballano le scrivanie di mezzo Parlamento. Molti di quelli che stanno lì adesso ce li hanno messi quelli che allora venivano a pregarmi».

Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti gli ha pubblicamente chiesto di collaborare e a settembre 2015 un investigatore e un magistrato, consulenti della Commissione antimafia, sono andati nel carcere di Parma ad ascoltare quello che aveva da dire. Non un interrogatorio ma solo dichiarazioni spontanee. Per il momento. Così in quella cella resta sepolto quello che non è un mistero ma semmai un segreto.

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