Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


L’episodio a cui ho ora accennato aveva provocato in me una prima, primordiale, presa di coscienza sull’imperialismo, in particolare quello americano; così la sinistra italiana e non solo definiva la politica estera degli Stati Uniti. Di quell’epoca ricordo anche un mio articoletto scritto sul giornalino del Club dell’Amicizia, che si intitolava “L’invasione dei giocattoli americani nei nostri supermercati”. Lo feci leggere a mio padre, sicuro del suo assenso e a dimostrazione che avevo compreso il senso delle sue parole. Non andò proprio come mi aspettavo. Prima mi fece notare che avevo fatto qualche errore di sintassi e poi passò all’analisi critica del testo.

Non si deve generalizzare. Il fatto che non te ne piaccia uno, non vuol dire che tutti i giocattoli americani siano da rifiutare. Ce ne sono di belli, divertenti e anche educativi ed è per questo che i ragazzi come te li scelgono, senza porsi il problema di chi li abbia fabbricati. I giocattoli aiutano a crescere divertendo e stimolando, a questo servono, e un genitore si deve preoccupare solo di valutare se siano appropriati o se siano pericolosi. Per me l’elmetto non era appropriato e ti ho spiegato perché. Il fatto che tu sia d’accordo, non è sufficiente per prendersela con tutti i giocattoli americani. Se posso darti un consiglio, torna all’Upim, osserva di nuovo i giocattoli e verifica se puoi confermare quello che hai scritto.

Seguii il suo suggerimento e scrissi un altro articoletto, nel quale paragonavo i giocattoli americani con quelli fatti in Italia.

Il partito, da buon padre di famiglia, pensava anche alle vacanze dei suoi militanti, quadri e dirigenti. Durante l’estate mio padre veniva invitato a far parte di delegazioni nazionali che visitavano i Paesi europei del cosiddetto blocco sovietico.

Erano viaggi di due-tre settimane, che mescolavano il riposo agli incontri con le delegazioni degli altri partiti comunisti e con i dirigenti del Paese ospitante. In genere andava con mia madre. Nel 1964 andò con mio fratello in Cecoslovacchia, che oggi non esiste più, essendosi divisa, pacificamente, in due Stati distinti: Repubblica Ceca e Slovacchia.

Il 22 agosto dovettero rientrare anticipatamente per la morte di Palmiro Togliatti, avvenuta il giorno prima, per partecipare ai suoi funerali. Nonostante questo triste epilogo, un po’ avevo invidiato Filippo, ascoltando i suoi racconti di viaggio.

Il viaggio in Polonia

Nel 1968 papà e mamma mi portarono con loro in Polonia. Conservo pochi ricordi nitidi di quel viaggio ma sufficienti a far riemergere le emozioni. Il programma comprendeva le visite di Varsavia e Cracovia e un soggiorno di un paio di settimane a Zakopane, località turistica sulle Alpi Tatra. Ricordo gli stabilimenti di Nova Huta Lenina e una discesa sul fiume Vistola dal sapore avventuroso. Era prevista la visita del campo di sterminio nazista di Auschwitz, dove andammo in pullman una mattina. Attraversato il cancello d’ingresso, reso celebre dalla tragica scritta che lo sovrasta “Arbeit macht frei/Il lavoro rende liberi”, una delle immagini più note di uno dei periodi più oscuri della storia dell’uomo, risultato della sua follia omicida, sostammo in una grande sala del blocco principale.

Lungo le pareti c’erano alcune bacheche di vetro dove, ricordo, erano esposti alcuni oggetti che testimoniavano cosa quella follia fosse stata in grado non solo di immaginare ma di realizzare. I responsabili del campo/museo parlarono brevemente con mio padre e mia madre, e loro, raggiungendomi mentre stavo fissando una di quelle bacheche, mi dissero che sarebbe stato meglio per me se fossi restato all’ingresso ad aspettarli. Anche se hai dodici anni – mi dissero con aria effettivamente dispiaciuta – ci è stato raccomandato di non farti fare la visita del campo, non sei ancora abbastanza grande per sopportarne l’emozione.

Non volendo lasciarmi solo troppo a lungo, la loro visita durò meno di quella degli altri e, quando li rividi, mi dissero che, in effetti, era stato meglio che fossi rimasto lì. Anche se nell’attesa non me ne ero fatto una ragione, capii, dal loro tono, che non cercavano di consolarmi. Infatti, mi raccontarono qualcosa di quello che avevano visto e del loro turbamento. Io reagii incredulo e disgustato nell’ascoltare quei pochi frammenti, ammettendo che la scelta fatta era quella giusta. Tornati a Zakopane, dopo qualche giorno l’Unione Sovietica invase la Cecoslovacchia e, improvvisamente, le delegazioni straniere ebbero grandi difficoltà a comunicare con l’esterno e non arrivarono più i giornali esteri, disponibili sino al giorno prima.

Non ci si accontentava degli scarni comunicati ufficiali e delle poche notizie fornite dai funzionari comunisti polacchi che ci accompagnavano. Mio padre tentava, in continuazione, senza successo, di parlare con i dirigenti del suo partito a Roma. Voleva saperne di più e capire come dovesse comportarsi con le altre delegazioni e gli alti dirigenti che si trovavano a Zakopane. Questa condizione di isolamento lo metteva a disagio.

Ricordo che era molto nervoso e che trascorreva la maggior parte del suo tempo a discutere e consultarsi con gli altri capi delegazione. Non lo avevo mai sentito parlare in francese o tedesco, come accadde in quell’occasione. Aveva chiesto di rientrare in Italia ma incontrava difficoltà spiegabili, in quel momento, solo dalla volontà dei nostri ospiti di rinviare il più possibile il suo ritorno. Immagino fossero in corso colloqui tra il PCUS e gli altri partiti comunisti e, fintanto che non era chiaro se fosse stata presa una posizione comune a sostegno dell’invasione, tutto restava immobile. Ovviamente, mio padre ignorava che il PCI, dopo aver seguito con interesse la Primavera di Praga e le scelte del segretario del partito cecoslovacco Dubček, avesse, immediatamente, assunto una posizione di condanna dell’invasione sovietica, e che questa scelta avesse contribuito all’isolamento cui lui (e la sua famiglia) era stato costretto in quei giorni. Finalmente, dopo un paio di giorni, mio padre riprese a comunicare liberamente con l’Italia e apprese della decisione del partito. Subito dopo i compagni polacchi gli dissero che saremmo potuti tornare a casa. Quel viaggio non lasciò in lui un bel ricordo.

L’opinione dei servizi segreti italiani, che lo avevano ritenuto degno d’attenzione – dagli atti del processo sul suo omicidio è emerso che rimase sotto osservazione, per decenni, sino a pochi giorni prima del suo assassinio –, era che mio padre fosse un uomo di Mosca.

Avevo assistito ad alcune delle sue conversazioni con Davide Fais, una vecchia conoscenza di famiglia, figlio di mamma Fais, storica amica dei nonni Zacco, motivo per cui le nostre famiglie erano molto legate. Fais era emigrato, per scelta politica, in Unione Sovietica ed era docente all’Università di Mosca, dove viveva e aveva messo su famiglia. Quando s’incontravano a Palermo, dove tornava a far visita alla madre ed al resto dei numerosi parenti, papà, curioso di sapere, lo riempiva di domande sull’URSS, il PCUS, Mosca, l’Università e la vita quotidiana nel Paese del socialismo reale, e Fais non trascurava nei suoi racconti i riferimenti ai limiti, alle manchevolezze, alle contraddizioni del sistema e della società sovietica. Mio padre ascoltava, avanzava dubbi, chiedeva chiarimenti e offriva punti di vista che portavano a conclusioni diverse. Fais ribadiva, argomentando ulteriormente, la correttezza delle sue affermazioni. Gran belle discussioni, che li vedevano entrambi appassionarsi, condividere analisi e rispettare le differenze d’opinione.

Tuttavia, più il tempo passava, più Fais andava maturando il proposito di tornare in Italia, perché non riusciva più a ritrovare le ragioni che lo avevano portato in Unione Sovietica. Finché non venne il giorno, erano gli anni Settanta, in cui prese la decisione di rientrare a Palermo, condivisa e sostenuta da mio padre. Si era spenta la spinta propulsiva che lo aveva portato nel Paese del socialismo reale.

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