Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Nel nuoto, come in altre circostanze sportive, sia mio fratello che io ci siamo misurati con lui sulla breve distanza, con risultati alterni, senza sapere se fossimo realmente più veloci o se ci facesse vincere. Sin da piccolo era stato abituato ad alzarsi presto al mattino per aiutare il padre nei lavori in giardino (così chiamavano quel piccolo terreno di proprietà davanti alla casa, destinato ad agrumeto, con una piccola stalla), abitudine che avrebbe mantenuto da adulto, insieme a quella della ginnastica, appena sveglio, che non abbandonò mai. Essere in forma era la condizione per affrontare gli impegni. Nulla di estetico, anche se non trascurava il suo aspetto e gradiva, a questo riguardo, i suggerimenti di mamma e di noi figli.

Né mio fratello né io, da buoni figli di comunisti, siamo stati battezzati alla nascita, di conseguenza non abbiamo ricevuto un’educazione religiosa. Filippo fu battezzato a dieci anni dal suo maestro elementare. Alla sua stessa età, frequentavo la parrocchia dietro casa, ero diventato chierichetto e servivo messa, finché, confessata la colpa originaria a Padre Mario, non fui, da lui stesso, allontanato. In verità, me lo mandò a dire, tramite un amichetto, col quale frequentavo la sacrestia di Regina Pacis, la parrocchia del quartiere Matteotti: Padre Mario ha detto di non farti più vedere. 

Non ho mai ricevuto alcun divieto a questo riguardo e nessun plauso quando ho smesso di frequentare la chiesa. I nostri genitori non avevano ritenuto di doverci educare secondo precetti religiosi. L’insegnamento era che la scelta, in questo caso, spettasse a noi e non potesse essere trasmessa, ispirandosi, quindi, ai principi di laicità e responsabilità. Negli anni, entrambi gli episodi sono stati oggetto di commenti. Le chiacchiere familiari, tra il serio e il faceto, ci davano lo spunto per ragionare insieme sul libero arbitrio, sulla presunzione di certi insegnanti e la miopia di alcuni sacerdoti.

Sin dalla mia infanzia mi sono sentito autonomo. Diciamo che godevo di una certa libertà di movimento, nei limiti imposti dall’età e, dentro quei confini, mi sentivo consapevole delle scelte e delle decisioni che assumevo. Crescevo respirando questi principi che si sono dimostrati molto utili nell’affrontare le cose della vita, anche nei suoi passaggi impegnativi.

La domenica mattina accompagnavo mio padre a comprare i giornali all’edicola vicino casa. Era un piccolo rito, si scambiavano due chiacchiere con il giornalaio e si tornava a casa. Anche in quella circostanza, mio padre non perdeva l’occasione per informarsi e ascoltare. Lui, con la sua mazzetta di giornali, e io con Topolino, il mio fumetto preferito, ci mettevamo a leggere insieme. In genere, preferivo conservare il fumetto per dopo e leggere prima i suoi giornali. Questa consuetudine ha stimolato la voglia di conoscere quanto accadeva attorno a me, ha nutrito il gusto della scoperta, mi ha fatto capire l’importanza di confrontarmi con opinioni diverse dalle mie e ha stimolato la curiosità per le cose del mondo. Passioni che sono oggi parte fondante del mio carattere e hanno contribuito a molte scelte rilevanti. Certe volte, sapendo che mi faceva sentir grande, mi proponeva di andare da solo dal giornalaio, e prima che fosse lui a chiedermelo, di mia iniziativa, gli ripetevo la lista dei quotidiani da acquistare, una decina, per dimostrare di essere all’altezza del compito ed evitare di dimenticarne qualcuno, e non mi sembra che sia mai successo. Un’abitudine mantenuta negli anni trascorsi a Palermo. Mi piaceva molto sfogliare l’Espresso – mi attraeva per il formato fuori misura e per le grandi foto, caratteristiche che lo rendevano differente dagli altri giornali – e fare domande su quello che non mi era chiaro.

Iniziavo, con naturalezza, ad aprire gli occhi e mi aspettavo, altrettanto naturalmente, che mio padre mi aiutasse a orientarmi, e lui era lì, vicino a me, a fornirmi gli elementi per venirne a capo e a stuzzicare nuove curiosità.

Contro la guerra

Negli anni in cui frequentavo la scuola media, parliamo del 1966-1969, senza che me lo chiedesse espressamente, forse per emulazione e un po’ per gioco, ho incontrato la politica. Da ragazzino quale ero e senza un calcolo preciso, condividevo questa scoperta con un gruppo di coetanei. Mio padre non poteva che apprezzare ma non forzava, non sollecitava, non chiedeva conto, al massimo suggeriva spunti e offriva occasioni, questo sì, ma lasciava che fossi io a prendere l’iniziativa.

Come quando, dopo aver fondato con gli amici il Club dell’Amicizia, gli chiedemmo se ci fosse uno spazio in federazione, dove poterci ritrovare, e lui mise a disposizione una stanza in soffitta, rendendoci felici e avendo anche la delicatezza di non domandarci perché avessimo scelto un nome così banale per il nostro club. Raccoglievamo piccole donazioni, in cambio di omaggi che offrivamo ai visitatori della Festa dell’Unità, con cui finanziavamo il nostro giornalino.

Accanto a questi primi vagiti di una coscienza adolescenziale, conviveva il ragazzino cui piacevano i giochi della sua età. Avevo visto sui banchi del reparto giocattoli dell’Upim, il primo grande magazzino aperto a Palermo, un elmetto militare diverso dal solito. Era di quelli mimetici e mi avevano colpito i colori e le foglie di plastica, di diverse sfumature di verde, che lo ricoprivano. Dopo qualche giorno, raccolte le duecentocinquanta lire necessarie, lo comprai e, tornato a casa a mostrare felice e soddisfatto il mio acquisto, ebbi il mio primo confronto dialettico. 

Mio padre mi accolse con una domanda:

– Ti piace la guerra?

– Quella vera no, mi piace giocare alla guerra coi miei amici.

– E dimmi una cosa: perché hai scelto questo elmetto?

– Mi è piaciuto perché era diverso dagli altri e non costava

tanto, come fucili, pistole e cose simili.

– Ma tu lo sai chi indossa questo elmetto?

– I soldati – risposi sicuro.

– Certo, i soldati, forse non mi sono spiegato bene, inten-

devo: quale esercito?

– Non lo so, dimmelo tu.

– L’esercito degli Stati Uniti. E sai in quale guerra viene

indossato?

– Veramente no, a scuola non l’abbiamo ancora studiato.

– Nella guerra del Vietnam contro i Viet Cong, che lottano per la riunificazione e l’indipendenza del loro Paese. Infatti è ricoperto di foglie, perché così i soldati americani si possono mimetizzare nella giungla, dove combattono.

Non un caso, quindi, se la prima manifestazione alla quale io abbia partecipato fosse per la pace e contro la guerra in Vietnam. Avevo dodici anni ed ero andato con mia madre a protestare davanti al Consolato USA di Palermo.

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