Nell’industria dell’abbigliamento un ripensamento della globalizzazione era già maturato prima della pandemia di Covid-19, con l’avvento del fast fashion. Nel settore della moda casual e poco costosa i brand non producono direttamente, ma utilizzano tanti fornitori diversi, specializzati nei vari tipi di capi, collocati in paesi a basso costo del lavoro. Un modello che ha funzionato bene per un trentina d’anni con qualche aggiustamento, per esempio riducendo il numero dei fornitori. Ma con il fast fashion i tempi che intercorrono tra la creazione di una linea di prodotto e la sua consegna al consumatore si sono abbassati drammaticamente, rendendo la logistica sempre più cruciale.

E parallelamente il costo del lavoro in Asia si è alzato: secondo il Global Wage Report 2020-21 dell’Organizzazione internazionale del lavoro i salari reali in tutto il mondo sono aumentati tra l’1,6 e il 2,2 per cento nei quattro anni precedenti alla pandemia, con quelli dell’Asia-Pacifico e dell’Europa orientale che sono cresciuti di più rispetto al resto d’Europa e al nord America. 

Più lontanti dall’Asia

Foto AP

Se quindi il tentativo di accorciare le distanze e di allontanarsi dall’Asia stava avvenendo già da qualche anno con il cosiddetto reshoring, la pandemia ha dato un colpo di acceleratore a questo fenomeno, mostrando tutti i limiti di una supply chain troppo lunga e in balia dei lockdown, dei porti congestionati, dei prezzi dei trasporti decuplicati da un anno all’altro.

«Un capo di abbigliamento impiega una trentina di giorni per arrivare dalla Cina in Italia», dice Lorenzo Novella, director della società di consulenza globale AlixPartners e specializzato nel settore lusso e moda, «mentre dalla Turchia o dall’Africa i tempi si riducono a 6-7 giorni».

«Più le catene di approvvigionamento sono globali, più le cose possono andare male e lo faranno», sottolinea un rapporto della Alixpartners. «Il risultato è il rilancio del nord Africa e dell’Europa dell’est come fornitori per le aziende dell’abbigliamento», aggiunge Novella.

I paesi interessati sono per esempio Marocco e Tunisia, produttori di capispalla, camicie, abiti femminili, denim, la Turchia (maglieria, denim), l’Ungheria (capispalla), il Portogallo (pantaloni, scarpe) fino ai primi esperimenti in Moldavia. Confermano alla Benetton: «A livello di catena di fornitura, nel 2021 è stato spostato il baricentro verso il Mediterraneo.

L’aumento dei costi e il ritardo della consegna delle materie prime, il trasporto logistico complicato dalla pandemia, i costi di produzione crescenti e il controllo della catena di approvvigionamento difficile da monitorare, hanno condotto l’azienda a riorganizzare le operazioni per ridurre la dipendenza dai prodotti asiatici, aumentando la produzione negli impianti esistenti di proprietà in Serbia, Croazia e Tunisia e per il resto approvvigionandosi da piattaforme in Egitto e Turchia, dove avrà un maggiore controllo sulle operazioni».

La società italiana ha già spostato più del dieci per cento della produzione fuori da paesi come Bangladesh, Vietnam, Cina e India. Una strada seguita da altri gruppi. Il nuovo Ceo della tedesca Hugo Boss, Daniel Grieder, ha dichiarato al mensile Manager Magazin: «Espanderemo il reshoring considerevolmente. Così potremo anche reagire più velocemente alle tendenze e in modo più flessibile ai colli di bottiglia. Questo è un vero vantaggio competitivo».

Il colosso spagnolo Zara basa già il 53 per cento della sua produzione tra Spagna, Portogallo, Marocco e Turchia, mentre il rivale svedese H&M realizza al contrario circa il 70 per cento dei suoi capi in Asia.

Avvicinarsi al cliente finale

Foto AP

Più che una deglobalizzazione, l’industria dell’abbigliamento sta vivendo una reglobalizzazione. In Italia, secondo i dati di Confindustria moda, il tessile, moda e accessorio realizzano complessivamente un fatturato di 91,7 miliardi di euro con un saldo positivo tra esportazioni e importazioni.

«Il lusso produce tutto in Italia e non è stato impattato in modo significativo dalla pandemia», precisa David Pambianco, amministratore delegato della società di consulenza Pambianco specializzata nel settore della moda e dei beni di lusso.

«Nell’abbigliamento, invece, i problemi nella logistica hanno portato a un reshoring delle produzioni dall’Asia verso l’Europa e il nord Africa. Ma non è che le grandi aziende hanno spostato tutto: modificano il mix riducendo solo in parte le produzioni in Asia. Del resto i fornitori sono una risorsa strategica e prima di abbandonarli, un’azienda ci pensa parecchio. Se realizzava il 30 per cento dei suoi prodotti in Bangladesh non va a zero ma magari scende al 15-20 per cento. Il settore della moda è molto fluido e si adatta rapidamente ai cambiamenti».

Ci sono poi da considerare i punti di forza sviluppati da alcuni paesi: «Difficile sostituire l’abbigliamento tecnico da moto o i guanti da sci prodotti in Cina», dice Novella.

Ritirata lenta

Foto AP

Un sondaggio della società di consulenza McKinsey & company condotto a livello internazionale tra responsabili degli acquisti di 38 marchi di abbigliamento globali, rivela che il 72 per cento degli intervistati prevede di avvicinare la produzione alla sede centrale della società.

In Italia invece le aziende sono più prudenti. «Le criticità nelle catene di approvvigionamento conseguenti alla crisi hanno innescato il dibattito sul reshoring come strategia percorribile anche dalle imprese della moda», si legge in un rapporto realizzato all’inizio dell’anno dalla Sace, azienda pubblica che assiste le imprese esportatrici.

«Sebbene sia ancora presto per un’analisi approfondita del fenomeno, alcune prime rilevazioni suggeriscono che non si sta assistendo a una vera e propria rilocazione manifatturiera; le imprese maggiormente internazionalizzate sembrano, infatti, aver reagito meglio alla pandemia».

Da un sondaggio condotto da Confindustria e Re4it a fine 2021 risulta che il 73,5 per cento delle aziende italiane di moda non abbia chiuso impianti nell’ultimo triennio e non intenda farlo nel corso del 2022. E tre imprese su quattro non hanno ridotto il numero di fornitori esteri e non intendono farlo, mentre il 5,8 per cento li ha sostituiti con fornitori domestici.

La tendenza è semmai quella di ribilanciare il peso della produzione tra i fornitori esteri, aumentando la quota di quelli più vicini, come mostra il caso Benetton. Il Mediterraneo, dal Marocco fino alla Turchia, torna a essere centrale nelle strategie delle imprese europee dell’abbigliamento e della moda. E potrebbe diventarlo anche in altri settori industriali.

© Riproduzione riservata