La circostanza inerente alle modalità di utilizzo della sigla “Falange Armata”, di cui hanno riferito sia il Malvagna che Maurizio Avola, ha trovato significativi ed incontrovertibili riscontri di carattere obiettivo. In particolare, numerosi attentati inseriti nella strategia stragista (in particolari quelli del ’93) furono rivendicati, a più riprese, dalla sedicente organizzazione anzidetta
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del decreto di archiviazione dell’inchiesta “Sistemi criminali”, della Procura della Repubblica di Palermo, del 21 marzo 2001.
Rilevanti sono anche le rivelazioni di Avola su un progetto di attentato ad Antonio Di Pietro, all’epoca in cui questi era P.M. a Milano.
Nell’interrogatorio del 5 dicembre 1996 Avola ha dichiarato che “in epoca successiva alle due stragi palermitani del ‘92 e molto probabilmente intorno al settembre-ottobre ‘92, nel corso di un colloquio con Marcello D’Agata, consigliere della famiglia di Catania, questi ebbe ad accennarmi al proposito di “fare un altro favore ai politici” uccidendo il dr. Antonio Di Pietro.”.
Avola è poi tornato in argomento sia nel corso di interrogatori resi al P.M. di Caltanissetta e di Palermo, sia nel corso di deposizioni dibattimentali (in particolare, nel processo in corso a Palermo nei confronti dell’on. Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa e nei processi di Caltanissetta e Firenze per le stragi del ’92 e del ’93), precisando di avere appreso che la soppressione di Di Pietro sarebbe stata richiesta a Cosa Nostra per tutelare presunti interessi illeciti dell’on. Bettino Craxi e del sen. Cesare Previti, messi in “pericolo” dalle indagini di Di Pietro, e che di tale progetto di attentato si sarebbe discusso nel corso di una riunione tenuta si in un hotel a Roma. Alla riunione avrebbero partecipato due uomini d’onore di vertice della famiglia catanese di Cosa Nostra, Eugenio Galea e Aldo Ercolano, e soggetti “esterni” all’organizzazione mafiosa ma ad essa legati: l’indagato Cattafi Rosario, che Avola ha definito come appartenente ai servizi segreti, ed “un altro che si chiamava Battaglia”, che Avola prima ha genericamente indicato come trafficante d’armi e che poi ha specificato trattarsi del noto finanziere Pier Francesco Pacini Battaglia. Comunque, al di là del dettaglio di tali dichiarazioni di Avola (in ordine alle quali – in particolare per quelle rese nel dibattimento del processo Dell’Utri - è in corso separato procedimento penale originato dalle querele presentate contro Avola dal sen. Cesare Previti e dal Pacini Battaglia), ciò che rileva nel presente procedimento è l’acquisizione di un’ulteriore conferma della presenza di soggetti “ispiratori” di Cosa Nostra nella scelta degli obiettivi da colpire durante la stagione stragista (D’Agata avrebbe detto ad Avola che l’attentato a Di Pietro era “un altro favore ai politici” che Cosa Nostra avrebbe fatto, e questo colloquio sarebbe avvenuto pochi mesi dopo la strage di via D’Amelio).
La valenza probatoria delle riportate dichiarazioni dei collaboranti catanesi è evidente perché confermano tutti i punti più qualificanti delle dichiarazioni di Leonardo Messina:
il contenuto e gli obiettivi della strategia destabilizzante: abbattere il vecchio sistema per creare nuovi referenti politici anche attraverso la secessione della Sicilia dal resto d’Italia;
le ragioni “storiche” di questa scelta strategica: la “crisi” delle relazioni con i più tradizionali referenti politici;
le modalità di attuazione del programma criminale: instaurare un clima di de stabilizzazione attraverso attentati contro uomini pubblici, ma anche con azioni di tipo terroristico, estranee alle tradizionali modalità operative di Cosa No stra;
il ruolo trainante della direzione strategica corleonese di Cosa Nostra palermitana (Totò Riina, soprattutto), ma con il coinvolgimento di tutte le famiglie di spicco dell’isola, comprese quella catanese (all’interno della quale i collaboranti concordavano nell’indicare in Nitto Santapaola, Aldo Ercolano ed Eugenio Galea i fautori di questa linea) e quelle facenti capo a Giuseppe Madonia (così confermando le rivelazioni di Leonardo Messina, specifico sul punto);
l’individuazione nello stesso territorio, e cioè nella zona centrale della Sicilia, dalle parti di Enna, del luogo in cui si svolsero le “riunioni plenarie” del ’91 ’92;
l’esistenza di “suggeritori esterni” della strategia stragista. Dall’attività svolta per la verifica di queste dichiarazioni, l’attendibilità ne è risultata rafforzata, non soltanto in considerazione dell’accertato spessore mafioso dei personaggi, fonti delle notizie riferite dai collaboranti, ma anche per i puntuali riscontri anche obiettivi che sono stati acquisiti.
Con riferimento alle indicazioni di Malvagna si è accertato che, in effetti, nel 1992 l’allora sindaco del Comune di Misterbianco, Antonino Di Guardo, ha denunciato a più riprese di aver subito minacce di morte a mezzo telefono. Si acclarava, altresì, che il Di Guardo, così come riferito dal collaborante, aveva denunciato anche pubblicamente condizionamenti mafiosi nella zona di Misterbianco. Ed ancora, si accertava che nel corso del 1992 erano state effettuate telefonate anonime che preannunciavano un attentato presso il Palazzo di Giustizia di Catania e, segnatamente, il 12 giugno, il 1° ottobre ed il 18 dicembre 1992.
Ma v’è di più. La circostanza inerente alle modalità di utilizzo della sigla “Falange Armata”, di cui hanno riferito sia il Malvagna che Maurizio Avola, ha trovato significativi ed incontrovertibili riscontri di carattere obiettivo. In particolare, numerosi attentati inseriti nella strategia stragista (in particolari quelli del ’93) furono rivendicati, a più riprese, dalla sedicente organizzazione anzidetta. Ed altri collaboratori (Vincenzo Sinacori, Tullio Cannella, Giovanni Brusca e Grigoli Salvatore) hanno riferito di avere appreso che, in relazione alle stragi del ’93, Cosa Nostra avrebbe fatto uso o doveva usare la “copertura” della falsa rivendicazione con la sigla della “Falange Armata” per depistare le indagini.
È significativo, poi, che il collaboratore Giuseppe Pulvirenti “’u malpassotu”, indicato sia da Malvagna che da Pattarino come uomo a conoscenza delle vicende in discorso, pur non ribadendo integralmente le dichiarazioni – in particolare – di Malvagna, ha confermato, sia nell’interrogatorio reso a questo Ufficio, sia nel corso della sua deposizione dibattimentale al processo per la strage di Capaci le seguenti circostanze: di essere a conoscenza, per averlo appreso da Benedetto Santapaola, della riunione tenutasi nella provincia di Enna nel 1991, in cui si parlò già dell’omicidio dell’on. Salvo Lima; di aver parlato di detta riunione con Filippo Malvagna, con il quale era solito confidarsi; che la strategia di attacco allo Stato era stata deliberata e intrapresa d’intesa tra le famiglie mafiose di Palermo e di Catania.
Al riguardo, appare utile riportare la valutazione espressa dai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta, compendiata nei seguenti brani della motivazione della sentenza di condanna di primo grado per la strage di Capaci emessa il 26.9.1997: “È certamente innegabile che le indicazioni fornite dal Pulvirenti siano state particolarmente confuse, fatto questo imputabile verosimilmente in gran parte alle sue condizioni di salute ed all’età, oltre che ad una conoscenza che doveva essere stata sin dall’origine comunque superficiale di tali fatti, che non riguardavano specificamente l’organizzazione da lui diretta, ma quella più ampia nella quale egli solo formalmente rivestiva la carica di “consigliere” della “famiglia” di Catania, in quanto lasciava che fossero i suoi congiunti, ed in particolare il genero Puglisi Piero, ad occuparsi delle questioni riguardanti tale “famiglia”.
Ma tuttavia tali indicazioni riscontrano sostanzialmente quelle del Malvagna sugli aspetti che rilevano in questa sede, e cioè: l’effettuazione di tale riunione nel periodo temporale sopra precisato con l’intervento di personaggi della caratura del Riina e di Santapaola Salvatore (altri di minore prestigio indicati dal Pulvirenti potevano essere stati presenti solo in funzione di accompagnatori); la trattazione in quell’occasione della strategia di attacco nei confronti dello Stato; il consenso prestato dai partecipanti a quella riunione a tale strategia, che anche nel Catanese ebbe una sua attuazione, sia pure ad un livello incomparabilmente inferiore; l’utilizzazione per le rivendicazioni degli attentati e del le minacce della sigla ‘‘Falange Armata’’ ” (vedi pag. 1586, sentenza c.d. Strage di Capaci).
“Che poi le conoscenze manifestate dal Malvagna sulla predetta strategia e sulla qualità delle persone intervenute alla riunione siano state notevolmente più chiare e precise di quelle del Pulvirenti, appare ragionevolmente spiegabile con la diversa lucidità intellettuale dei due e con il fatto che il primo, meno portato dell’altro a circoscrivere i suoi interessi all’ambito prettamente provinciale, aveva potuto attingere ulteriori informazioni sulla linea strategica seguita in quegli anni da Cosa Nostra e sui profili organizzativi della stessa, oltre che dalla sua partecipazione ad alcuni incontri periodici con gli affiliati della “famiglia” catanese di Cosa Nostra, dalle conversazioni avute durante la comune detenzione con il D’Agata, consigliere di quest’ultima “famiglia” e profondo conoscitore delle vicende di questa organizzazione.
Tali indicazioni avevano, quindi, con sentito al Malvagna di integrare le conoscenze derivanti dalle confidenze fattegli dal Pulvirenti” (vedi pag. 1587, sentenza c.d. Strage di Capaci). Ulteriori conferme sono venute da altri collaboranti catanesi, come Antonio Cosentino il quale ha riferito che, già verso la fine del 1991, in una riunione del verti ce della famiglia di Catania era stata esposta la strategia di Cosa Nostra di attacco allo Stato, consistente sia nella eliminazione di magistrati operanti nelle indagini antimafia, sia nel compimento di attentati di tipo terroristico ad obiettivi indiscriminati da compiere anche fuori dalla Sicilia (cfr. interrogatorio del 6.4.1995).
Del presunto attentato a Di Pietro, di cui ha parlato Avola, ha riferito anche Giovanni Brusca, il quale nell’interrogatorio del 6 novembre 1996 ha affermato di avere avuto dei contatti con i “catanesi”, in particolare con Eugenio Galea, nel corso dei quali si discusse di un attentato a Di Pietro, che - secondo Brusca - sarebbe servito quanto meno ad incrementare l’effetto destabilizzante già realizzato con le stragi palermitane del ‘92 e a distrarre l’attenzione dalla Sicilia.
Va, tuttavia, evidenziato che le ulteriori indagini svolte, a riscontro delle dichiarazioni di Avola sul punto, non hanno consentito di acquisire dati obiettivi di conferma della riunione dell’hotel Excelsior di Roma, in quanto ha avuto esito negativo la verifica della presenza in quell’albergo dei personaggi citati nel periodo indicato da Avola.
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