Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 21 al 25 giugno a Lamezia Terme.


Come nasce il libro “Macromafia. La multinazionale dei clan che sta conquistando il mondo”?

L’idea di questo libro è nata nei Paesi Bassi. Ero andata lì per cercare di capire cosa ci fosse dietro il boom di sequestri di cocaina nel porto di Rotterdam, che non è Gioia Tauro ma il più importante e moderno terminal container d’Europa.

Mi sono trovata davanti un Paese terrorizzato per le azioni criminali e le minacce di un singolo boss, Ridouan Taghi, che dal nulla aveva creato un’organizzazione mafiosa così potente e feroce da sfidare apertamente lo Stato. Taghi ha realizzato in vent’anni quello che ai corleonesi ha richiesto mezzo secolo, importare centinaia di tonnellate di droga grazie a una rete logistica perfetta mentre le istituzioni dei Paesi Bassi non sono state in grado di comprendere come stesse diventando una vera mafia.

Questo mi ha spinto a concentrarmi sulle figure come lui che hanno reso possibile il salto di qualità nel narcotraffico, passando dal trasferimento attraverso l’Oceano di quintali di polvere a quello di tonnellate. E allo stesso tempo al modo in cui questi boss sono riusciti a sfruttare le nuove tecnologie e le falle nelle legislazioni internazionali in modo da incrementare i loro affari.

Le storie e le alleanze raccontate ci portano a guardare boss e criminali in un "macro" sistema illegale in cui il termine mafia sembra forse superato. È così?

Nella dimensione macro dei signori che arbitrano il prezzo della cocaina il termine mafia non è superato. Queste figure non sono semplici broker, perché nel caso dell’olandese Taghi, del bosniaco Gačanin e soprattutto dell’irlandese Kinahan il loro sistema aveva la testa nei grattacieli di Dubai ma i piedi ben piantati nel controllo delle periferie di Rotterdam, Sarajevo e Dublino.

L’unico, stando alle contestazioni dei magistrati, a non comandare un proprio clan è Raffaele Imperiale, a cui però è stato contestato il 416 bis perché il suo contributo all’associazione camorrista sarebbe stato tale da permettergli di vincere addirittura la faida di Secondigliano.

Siamo di fronte ad un’evoluzione del modello mafioso, in cui il controllo del territorio e la forza dell’intimidazione rimangono ma passano in secondo piano rispetto alla creazione di una rete logistico-finanziaria in apparenza pulita che permette di spostare merci proibite e denaro non tracciabile in tutto il mondo.

Dopo aver raccontato le inchieste della Dea e conosciuto le tecniche investigative nostrane, che idea si è fatta sulla possibilità di intercettare e reprimere il crimine organizzato? Quanto siamo indietro a livello di cooperazione internazionale?

L’Italia è stata all’avanguardia nella legislazione antimafia e negli strumenti tecnologici per combattere la criminalità organizzata. Ancora oggi la qualità dei nostri reparti investigativi è considerata straordinaria. Allo stesso tempo però le operazioni contro i sistemi di telefonia criptata che hanno permesso il dilagare del traffico di cocaina e la nascita della Macro Mafia hanno visto come protagonisti altri Paesi europei. Non possiamo pensare di imitare la Dea perché loro hanno la possibilità di compiere attività di provocazione su larga scala: hanno persino creato un operatore di telefonia criptata e lo hanno inserito sul mercato criminale. Ma molte polizie e magistrature europee si sono rivelate più dinamiche, perché i loro Paesi hanno introdotto leggi sulla cybersicurezza che si possono applicare anche ai server usati dai boss e reparti di indagine digitale con ampi poteri. In Italia invece si sta pensando persino di ridurre la possibilità di impiego dei trojan: non credo che ci sarà una spinta del governo o del Parlamento a migliorare le cose. La lezione di quello che è accaduto in Olanda però, dove boss venuti dal nulla hanno assassinato uno dei giornalisti investigativi più noti, fatto esplodere autobombe contro le redazioni e minacciato il premier dovrebbe farci aprire gli occhi sul pericolo di sottovalutare l’evoluzione tecnologica dei clan.

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