Insomma, vecchie storie tormentano il nuovo “triumvirato”. La decisione è molto complessa. Aggrava le spaccature nei vertici; determina manovre di avvicendamento di capi mandamento, alimenta i sospetti reciproci e i tradimenti. Sono tutti i prodromi di una vera e propria guerra di mafia tra le diverse fazioni. L’una capeggiata da Rotolo e l’altra da Lo Piccolo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.
Le precauzioni per lui non sono mai sufficienti. Teme che i “pizzini” cadano nelle mani sbagliate. Un rischio concreto, dato il dispiegamento di uomini e mezzi per interrompere la superlatitanza. Fedele ad una riservatezza quasi maniacale, Provenzano pretende prudenza anche sui testi delle missive e non solo sulla gestione del circuito della trasmissione.
Bisogna rendere difficoltosa l’identificazione degli autori, dei destinatari e dei soggetti citati nei foglietti. A ciascuno di loro, quindi, viene attribuito un codice numerico, una sigla ovvero uno pseudonimo.
Sei mesi prima dell’arresto del “fantasma di Corleone”, la Squadra Mobile dispone della chiave che consentirebbe di decifrare il codice numerico indicato nei “pizzini”. Gli argomenti trattati e la relazione con le zone di influenza territoriale citate avrebbero fatto il resto nella identificazione di destinatari o redattori delle lettere dattiloscritte. Per i fogli manoscritti, anche la calligrafia può aiutare gli investigatori.
Durante i dialoghi intercettati il 30 agosto 2005 nel box in lamiera di viale Michelangelo, Antonino Cinà si vanta con Nino Rotolo “io sono il centosessantaquattro”, scandendo pure “uno, sei, quattro”. E aggiunge: “io ci metto N.N., ma siccome c’è qualcun altro che ci mette N.N., io scrivo pure un segnale, e lui lo capisce”.
Poi Cinà ricorda una frase che inserisce in ogni foglietto indirizzato a Provenzano per farsi riconoscere: “ti dovevo dare altri cinquanta milioni…lui lo capisce subito”.
E proprio in uno dei “pizzini” sequestrati nel covo del padrino, “164” parla dei “cinquanta milioni”.
Sempre Cinà e Rotolo parlano di una ulteriore precauzione. “Tu scrivi a mano?”, domanda Rotolo riferendosi alla scrittura dei foglietti diretti a Provenzano. “A stampatello” risponde l’altro. E continua: “però mi metto i guanti quando scrivo. Per non fare le impronte, hai capito?”.
Della maggior parte degli scritti trovati a Montagna dei Cavalli Provenzano è il destinatario. Oltre ai biglietti, le forze dell’ordine trovano considerevoli somme di denaro, in parte ancora custodite all’interno di buste indirizzate “al numero 1”. Una indicazione che identifica nel superlatitante il terminale della raccolta dei proventi dell’organizzazione, secondo le ferree regole di una struttura verticistica e unitaria.
Numerose missive contengono toni deferenti e affettuosi. Sono i toni che si devono a colui che si presenta come l’indiscusso ed effettivo capo.
Alcune missive chiedono consigli, suggerimenti o la soluzione di delicate questioni di equilibrio interno. Altre mirano alla captatio benevolentiae del capo per averlo dalla propria parte nelle contese per la futura leadership di Cosa Nostra.
Un argomento torna con una certa frequenza e coinvolge a fondo Bernardo Provenzano.
Si tratta dell’annosa questione del rientro in Italia degli Inzerillo di Passo di Rigano. Tra loro ci sono “uomini d’onore” provenienti da una famiglia palermitana con una tradizione autenticamente
mafiosa. Sono esiliati negli USA dai tempi dell’ultima “guerra di mafia” per volere della “cupola”. Esiliati per una decisione nata da un compromesso stipulato tra l’ “ala corleonese” e le cinque grandi “famiglie” di New York, ossia dei Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo. In quel modo si erano neutralizzati i propositi di Totò Riina, il quale aveva in più occasioni sostenuto che degli Inzerillo “non doveva rimanere neppure il seme sulla faccia della terra”.
Ma “l’ipotesi del ritorno” degli Inzerillo innesca una forte fibrillazione nel “gotha” della associazione. Riapre “vecchie ferite” e alimenta rancori solo apparentemente sopiti. Gli “scappati” hanno vissuto per oltre un ventennio lontani dalla loro terra, umiliati, braccati e addolorati dalle morti dei parenti stretti. Non hanno smesso di piangere per Totuccio Inzerillo, tradito e ucciso nel 1981, solo venti giorni dopo l’assassinio dell’altro leader della cordata “anti-Riina”, ossia Stefano Bontate.
Ricordano ancora la fine che era toccata a Pietro Inzerillo, il fratello di Totuccio. Lui era scappato a Philadelphia. Sotto mentite spoglie, si era messo a gestire un paio di ristoranti e una pizzeria. Ma viene tradito da un suo familiare. I corleonesi lo freddano con un colpo di arma da fuoco alla testa la mattina del 15 gennaio 1982 nel parcheggio dell’hotel Hilton a Mont Laren, nel New Jersey. Riina non è pago della semplice esecuzione capitale. Vuole inviare un messaggio simbolico con quella morte. Da ordine ai killers di infilare nella bocca del cadavere una mazzetta di dollari. Vuole dire a tutti i “picciotti” che gli Inzerillo, gli Spatola e i Gambino si sono ingrassati con il commercio dell’eroina, lasciando solo le briciole ai viddani.
Insomma, vecchie storie tormentano il nuovo “triumvirato”. La decisione è molto complessa. Aggrava le spaccature nei vertici; determina manovre di avvicendamento di capi mandamento, alimenta i sospetti reciproci e i tradimenti. Sono tutti i prodromi di una vera e propria guerra di mafia tra le diverse fazioni. L’una capeggiata da Rotolo e l’altra da Lo Piccolo.
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