Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


All’inizio degli anni Cinquanta, il PCI palermitano organizzò i “congressi popolari”, che dovevano definire un programma di rinascita e lo schieramento di classi sociali capace di portarlo avanti. Il Corriere della Sera gli dedicò un articolo di fondo dal titolo Comunisti a Palermo. Dai congressi venne la proposta di legge per il risanamento del centro storico di Palermo.

Alla metà degli anni Cinquanta, Pio La Torre, da segretario della Camera del Lavoro di Palermo, assistette al grande esodo delle masse povere siciliane che emigravano al nord del Paese o, ancor più lontano, all’estero, e allo svuotamento di intere zone della Sicilia. Si batté contro alcune scelte, in particolare gli investimenti per lo sviluppo del settore petrolchimico. Scelte politiche che considerava sbagliate, calate dall’alto e rispondenti a interessi e logiche lontane da quelle che avrebbero favorito uno sviluppo sostenibile; scelte alle quali opponeva un programma di riconversione industriale, che metteva al centro la valorizzazione delle risorse agricole, industriali, culturali e turistiche dell’isola, il contrario di quanto accadeva, con spreco di denaro e l’impossibilità di realizzare piena occupazione. Tra le donne siciliane costrette a emigrare per costruirsi un futuro migliore c’era sua sorella Felicia.

Così riflette mio padre: Da un lato l’esodo in maniera biblica, spaventosa, dall’altro la necessità di dare contropartite a masse a cui non si dava un’occupazione seria, un lavoro serio, una prospettiva seria, e quindi lo Stato assistenziale, come si dice.

Furono anni di grandi mutamenti per il nostro Paese, che cambiava aspetto, si toglieva gli abiti lisi del contadino, per indossare le tute sporche dell’operaio. Anni difficili, che anche il PCI non seppe interpretare a pieno.

Riflettendo sugli eventi di allora, mio padre mette a fuoco così i problemi del suo partito:

Non c’è dubbio che abbiamo mostrato limiti, intanto sul piano nazionale. Siamo arrivati nel ’55 alla sconfitta alla Fiat, e solo in quel momento ci siamo resi conto della gravità del nostro arretramento nelle grandi fabbriche che erano state protagoniste della guerra di Liberazione. Noi ci ponemmo allora il problema di analizzare la realtà del capitalismo italiano e prendere atto di come fosse in pieno svolgimento il “miracolo”, mentre noi avevamo continuato a parlare di stagnazione. Insomma facevamo un’analisi un po’ manichea e stereotipata che non era più valida nel ’55 perché eravamo entrati in una fase nuova.

Nel 1962 concluse la sua carriera nel sindacato, dove aveva ricoperto la carica di segretario regionale della CGIL, per ritornare al lavoro di partito e assumere la responsabilità di segretario del PCI siciliano, carica che mantenne sino al 1967. Candidato all’Assemblea Regionale Siciliana alle elezioni del 1963, venne eletto e restò in carica per due legislature. Lì portò la sua battaglia per il rilancio e il rafforzamento dell’autonomia siciliana. Un’autonomia tradita per mancanza di visione e per una gestione, a suo dire, sciagurata da parte della classe dirigente democristiana, innanzitutto, e dei suoi alleati al governo della regione. Una visione dello sviluppo subalterna al modello nazionale, che sacrificava le straordinarie risorse agricole e il significativo patrimonio culturale sull’altare di un’industrializzazione poco sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Una gestione inefficiente e basata su interessi clientelari, mirata esclusivamente a procacciare consensi elettorali.

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