Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Incontro dopo incontro si arrivò alla famosa riunione, quella di Natale dell’anno 1991. Che poi era una tradizione, la facevamo ogni anno. Solo che c’era tanta malinconia nell’aria.

Per quanto ci scambiassimo gli auguri di presenza – riportando quelli di chi non poteva esserci, per opportunità, per latitanza, per malattia o perché era ospite dello Stato –, e ci rallegrassimo della nostra buona salute, non credevamo a una sola parola di quelle bugie di circostanza sulla prospettiva di un felice anno nuovo.

I più sentiti auguri di buon Natale a lei e famiglia, riferisco, e tante care cose, grazie, un bacio per guancia. Era tutta una finzione, perché il rumore del passo zoppo della giustizia cornuta ci inquietava e sembrava annientare il battito del nostro cuore: lenta e inesorabile, davvero quella volta si stava avvicinando a levarci il sonno e il benessere. Ogni capo mandamento passava dieci minuti con la Commissione di Cosa nostra, e poi ci sedevamo tutti al completo.

Non ci consolavano né i dolci di ricotta, né il passito mieloso che mandavamo giù a piccoli sorsi interrotti da sospiri di ansia. Ci davano noia persino le frasi fatte sulla pioggia che mancava, o sui tempi andati. Volevamo arrivare subito al punto. E anche Matteo era inquieto. E Riina nella sonnolenza del dopo pranzo, con gli occhi a passulune, si lasciò dire una frase, che era: dobbiamo chiudere i conti. Ci guardammo tutti per un istante. Di chi sarà il turno adesso, ci chiedevamo, c’è un traditore tra noi? E quindi, ancora una volta, qualcuno dal nostro pranzo non avrebbe fatto ritorno al paese suo. Ma Riina parlava con noi, non parlava di noi. Bisognava chiudere i conti.

Durante quella riunione stavamo muti ad ascoltare zio Totò. Matteo ci controllava a vista. Non voleva esitazione nei nostri sguardi, dubbi nelle nostre smorfie, perplessità nei nostri tic. Con quell’occhio leggermente strabico, sembrava giocare a «Un, due, tre, stella»; se il suo sguardo cadeva su di te, e scorgeva anche un minimo movimento, ti poteva finire male.

I tagliancozzi con il marsala erano acidi nei nostri stomaci, e nel silenzio del malaseno si sentiva il borbottio di qualche succo gastrico, un principio di gastrite. Sussultavamo per il rumore dei rami che ogni tanto graffiavano le imposte, spinti dallo scirocco che rendeva le bocche asciutte.

Qualcuno magari avrebbe voluto parlare, dire qualcosa, ma calò un freddo improvviso nella stanza, un’aria così glaciale che le parole ghiacciavano ancora prima di uscire dalla bocca, e il nostro alito faceva un vapore quasi come un arabesco che condensava tutti i progetti di morte.

Tra noi, Nino Giuffrè fece un gesto, come per dire qualcosa, una mano che stava per alzarsi, un leggero raschio della gola come a mettere ordine alle parole. Raffaele Ganci, accanto a lui, gli diede un colpo con il ginocchio e lo guardò dritto negli occhi. In quello sguardo tutti leggemmo l’avviso: «Statti muto». Riina sapeva che sarebbe finita male ancora prima di quella sentenza della Cassazione.

Doveva andare bene e invece andava male, ripeteva, come un ossesso. Bene, male. Bene, male. E pensare che lui personalmente ci aveva rassicurato che avrebbe aggiustato il processo. E Matteo pure era persuaso: vedrete, vedrete, diceva. E lo stesso Matteo quando poi lo interrogavamo per cercare di capire meglio il senso di quell’oracolo, quel fare la guerra che si profilava all’orizzonte dell’anno nuovo, ci diceva: ognuno si aiuti come può.

“Il gelo nella stanza”

Calò un gelo improvviso nella stanza. Nessuno osava alzarsi, muoversi, interrompere quello che stava facendo. Chi aveva gli occhi a terra, continuava a tenerli, chi, con la testa calata, guardava il signor Totuccio, continuò a fissarlo, chi guardava il muro con gli occhi aperti come la civetta, continuò in quella sua espressione ebete. Una mosca testarda tirava colpi alla finestra.

Prendeva la rincorsa per poi schiantarsi contro il vetro con forza. Matteo con lo sguardo controllava tutti, lentamente spostava la testa, quasi volesse pesare ogni nostro respiro. Qualcuno di noi era come in trance. Nessuno fiatava. Neanche quando ’u cristianeddru, per spezzare quel silenzio, aggiunse: «Siamo al capolinea».

Che lui intendeva la resa dei conti, ma anche Matteo, se avesse parlato, avrebbe utilizzato la stessa espressione, perché vedeva il capolinea, davvero, nel senso del «Signori, si scende» delle ultime corse della notte, per Riina e tutti gli altri. E già pregustava il nuovo corso, quello che sarebbe nato dalle rovine, i nuovi patti silenziosi e pieni, i nuovi affari.

Stiamo parlando del dottore Falcone, minchia, mormorò qualcuno più tardi, stiamo parlando dell’onorevole Lima, buttanalamiseria, stiamo parlando di personaggi di un’importanza notevole. Chiddru chi veni ni pigghiamu, tagliò corto lui. Quello che viene ci prendiamo.

Eravamo di fronte alla grande sconfitta di un capo che era convinto che sarebbe riuscito ad aggiustare le cose, e che invece andava incontro a una disfatta totale, e, come nella storia di Sansone che muore con tutti i filistei, aveva deciso di portarci tutti nel baratro con lui, ma con il nostro assenso. Ma sì, disse il primo, è l’ora della vendetta. Basta nasconderci, aggiunse un secondo.

Facciamo vedere chi siamo, arrivò chiaramente da una voce in penombra. Qualcuno lasciò partire un applauso, qualcuno si alzò in piedi, ad altri ancora si illuminarono gli occhi. Il piano stragista era divenuto il nostro piano. Non temevamo più l’avvicinarsi dei demoni. E a Matteo gli occhi brillavano ancora di più. Qualcun altro, con voce un po’ incerta, quasi avesse timore di interrompere la bella atmosfera che adesso c’era, disse: «Picciotti, se permettete dobbiamo passare a parlare del fatto di Ocello».

Ce ne eravamo dimenticati. Pietro Ocello, capo mandamento, era stato ucciso. Bisognava provvedere, trovare un sostituto, vedere se andava bene il nome di Benedetto Spera. Passammo a parlare di questo, business as usual, avrebbero detto gli inglesi.

Concludemmo con gli auguri di Natale, prima quelli di Riina a ogni capofamiglia, e poi un brindisi finale, esortandoci l’un l’altro a fermarci ancora un po’, altri cinque minuti, senza fretta: «Facciamoci le buone feste come si deve. Siamo persone per bene, manteniamo le tradizioni».

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