«Un mio associato lombardo mi dice che l’ultima volta che è stato a fare la dialisi si è ritrovato all’ingresso dell’ospedale insieme alle ambulanze che portavano i malati di Covid-19», dice Giuseppe Vanacore, presidente dell’Associazione nazionale emodializzati. Per i malati cronici, che hanno bisogno di regolari visite in ospedale, la pandemia è un periodo più duro che per gli altri. Il rischio di contagiarsi, infatti, va di pari passo con la necessità di recarsi all’ospedale per i controlli periodici: «Abbiamo chiesto trasporti alla dialisi che distinguano tra pazienti Covid-positivi e non, e di isolare le sale in cui avviene la terapia, ma spesso non c’è una separazione adeguata né personale esclusivo», continua Vanacore.

Dai dati emerge che il 37 per cento dei pazienti sottoposti a dialisi che hanno preso il virus da inizio pandemia è morto.

I medici cercano di gestire il problema, rassicurando quanto possono. «Dobbiamo mandare il messaggio che entrare in ospedale non equivale ad ammalarsi e che chi viene deve venire tranquillo», spiega Ester Pasetti, segretario regionale dell’Emilia-Romagna del sindacato dei medici Anaao-Assomed.

Le urgenze, come trapianti e visite o operazioni importanti, ma anche le terapie regolari sono infatti sempre garantite. Si chiudono però reparti doppi, o quelli non essenziali all’attività ospedaliera d’emergenza. Vengono poi spesso rinviati gli interventi di chirurgia d’elezione, cioè quelli che si possono rinviare, e le visite meno urgenti.

Il rischio del rinvio

La valutazione su quale sia una visita “urgente” non è però sempre facile. Il problema non sono le visite di controllo, spiegano i medici, ma il primo contatto che può identificare per tempo una patologia grave. «Da inizio pandemia abbiamo perso 1.500 screening», dice Marcella Ribuffo, presidente della Lilt. «Una mancanza di prevenzione che tra dieci anni provocherà 10mila morti di tumore in più». Con il venir meno di una diagnosi precoce, infatti, la terapia si fa più difficile: una serie di studi internazionali ha già iniziato a rilevare i primi, seri ritardi nell’identificazione dei tumori a colon e seno.

Foto Ap

Però, oggi, il rischio più grande è che chi sta male l’ospedale lo evita, peggiorando così la propria situazione. «Stiamo vedendo i risultati degli accessi tardivi: infarti che entrano in pronto soccorso in stato avanzato, appendiciti già trasformate in peritoniti. Tutte evoluzioni che rendono le operazioni più complicate», dice Chiara Rivetti, segretaria dello stesso sindacato in Piemonte, regione rossa dove sono occupati il 48 per cento dei letti in terapia intensiva e il 92 per cento di quelli ordinari.

Non si può fare tutto

Anche i controlli all’ingresso dei pronto soccorso a volte falliscono: si chiedono eventuali sintomi di coronavirus e si effettua il tampone, «ma malgrado i tamponi siano aumentati, può capitare che qualche paziente positivo possa finire nei reparti non Covid», dice Antonino Palermo, il collega siciliano di Pasetti e Rivetti.

Il personale è sempre quello, con numeri sempre più striminziti. «È difficile non mischiare l’attività in reparti puliti e in quelli sporchi, per quanto ci vestiamo e svestiamo di continuo», dice Rivetti. Ormai, negli ospedali, lo spazio per le altre patologie è sempre meno. Ogni volta che apre un reparto Covid, si perde un reparto dedicato ad altri malati. Questo perché, appunto, i medici sono pochi e quei pochi che ci sono vengono chiamati alla guerra al Covid-19 anche se non sono anestesisti o medici di pronto soccorso, allontanandoli dalla loro attività e dai loro pazienti.

Foto Ap

Il fatto di impiegare medici in reparti cosiddetti “non equipollenti” pone il problema delle cure non adeguate: per quanto preparati nel loro campo, non sempre possono fornire tutti i livelli di assistenza di cui avrebbe bisogno un malato Covid-19.

«Oltre a ricevere un ordine di servizio che li costringe a distrarre la loro professionalità dalla propria specializzazione, sono anche frustrati per il fatto di non poter assistere al meglio i pazienti con il coronavirus», dice Palermo.

Oltre ad aver raggiunto il limite fisico di medici e infermieri, tutte le regioni si stanno avvicinando alla saturazione dei posti letto disponibili: non tanto quelli della terapia intensiva, reparto più sotto pressione durante la prima ondata e rafforzato dagli interventi di stato e regioni, ma quelli ordinari.

La situazione che si crea è che i pazienti sulla via della guarigione, ma che hanno ancora il tampone positivo, non possano tornare a casa per il rischio di infettare i loro familiari e quindi restano a “occupare” letti che potrebbero essere usati altrimenti. Stesso discorso per i pazienti di età avanzata e magari non autosufficienti: dimetterli, anche quando ormai hanno superato il momento più arduo della malattia, non è facile.

Svuotare gli ospedali

«Dovremmo riuscire a curare precocemente a casa ed evitare i ricoveri, andrebbero potenziate anche le Usca (le unità operative che effettuano i tamponi e seguono a domicilio chi è sintomatico ma non necessita di ricovero, ndr)», dice ancora Pasetti. La collega Rivetti aggiunge: «Tutti i ricoveri di questi giorni sono stati appropriati, ma quando i pazienti si stabilizzano possono essere dimessi».

Il problema rimane dove mandarli: il governo ha dato l’incarico al Commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri di trovare un ospedale Covid-19 per ogni provincia dove accogliere questi pazienti “intermedi”, che hanno superato il peggio, ma possono ancora infettare le persone intorno a loro.

La situazione è prossima al collasso e bisogna sgravare gli ospedali dal peso enorme che stanno sopportando. Questo vale anche di più per le altre patologie, considerato quanto i malati rischiano a infettarsi: è questo il motivo per cui anche le associazioni spingono per potenziare l’assistenza domiciliare ai malati cronici, come pazienti oncologici e cardiopatici. «Facciamo quel che possiamo con i nostri volontari che cercano di aiutare i malati a casa e li accompagnano alla terapia, ma siamo pur sempre un’associazione», dice Ribuffo della Lilt.

Stesso discorso per gli scompensati cardiaci: «Per noi è fondamentale che si potenzi la telemedicina, perché il monitoraggio da remoto di malattia e stato dei device come per esempio i pacemaker è possibile», dice Maria Rosaria Di Somma, consigliera dell’Associazione italiana scompensati cardiaci.

© Riproduzione riservata