Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


Dopo la trasferta a Regina Coeli riprendemmo a lavorare a pieno ritmo, anche il primo novembre; godemmo di qualche giorno di sospensione dalle attività solo dal 19 al 22, e si ricominciò a verbalizzare il 23. Il 23 novembre del 1989 si presentò come una giornata come altre, freddina, piovosa e con il solito maledetto traffico sul Raccordo Anulare, ma alle nove e un quarto avevo già intestato il verbale e iniziammo a scrivere.

Verso la fine della mattinata arrivarono De Gennaro e Alessandro Pansa con un album fotografico; già altre volte era successo, in precedenza, che venisse qualcuno a portare carte, o che De Gennaro si affacciasse un momento a vedere come procedeva, ma stavolta Falcone mi fece dare atto nel verbale della presenza dei due funzionari, che si trattennero fino alla fine della mattinata.

Il pomeriggio trascorse senza ulteriori novità, la scorta di ritorno al carcere di Casal del Marmo si svolse senza incidenti e la sera alle dieci eravamo di ritorno in ufficio, in viale dell’Arte. Quando tornavamo a quell’ora, di solito trovavamo ad aspettarci soltanto il piantone e un collega della segreteria che ci faceva riporre negli armadi blindati gli M12 e i giubbotti antiproiettile, ma già arrivando al cancello quella sera capii che qualcosa non quadrava.

Il parcheggio interno era pieno di macchine, dentro tutte le luci erano accese, e in ufficio c’era un sacco di gente, facce scure, espressioni preoccupate. Inusuale. C’è anche Francesco Gratteri, che mi viene incontro sulla porta e mi chiede: – Tutto bene, Maurizio? La domanda mi pare oziosa: siamo lì, quindi mi sembra ovvio che non ci siano stati problemi. Rispondo con un laconico “certamente…”, che faccio seguire da evidenti punti di sospensione, rivolgendo un eloquente sguardo all’ufficio affollato.

Non ci gira intorno: – A Bagheria stasera hanno ammazzato la madre, la sorella e la zia di Mannoia – secco. Il mio primo pensiero va alle parole di Antonio Manganelli, quando con espressione improvvisamente seria, poco più di due mesi prima, ci aveva detto: ragazzi, qui si muore! – Quando è successo? – chiedo. Mi faccio due conti: hanno preferito che Mannoia venisse informato dal Maggiore Ragosa, e mi dico che probabilmente avrei fatto anch’io lo stesso: dopotutto il rapporto con noi della Polizia è un rapporto di lavoro, formale, mentre paradossalmente il carcere è la “casa” e i secondini sono la “famiglia”.

Faccio mettere a posto le armi e aspettiamo disposizioni: poco prima di mezzanotte Gratteri mi dice che per il giorno dopo il servizio è confermato. L’indomani mattina, alle sei, al posto della solita blindata e della 33 di scorta abbiamo tre auto blindate e in armeria ci fanno trovare gli M12 con i caricatori doppi e già nastrati: è finita la riservatezza, e lo Stato mostra tutti i muscoli che è riuscito a mettere insieme con il minimo preavviso. A Casal del Marmo, in caserma, attendo Mannoia.

Arriva accompagnato dal Maggiore Ragosa. Il viso è grigio e segnato, ma non vi è traccia evidente di emozioni, gli faccio le condoglianze, che accetta ringraziandomi in maniera composta, e gli chiedo, come mi è stato detto di fare, se se la sente anche oggi. – Un impegno è un impegno – risponde asciutto. Ci avviamo. Il tempo della riservatezza è finito, la scorta da discreta è diventata operativa, non risparmiamo sui segnali e c’è tolleranza zero per chi intralcia il passaggio.

Mi fido della guida di Franco, che sa come farsi largo nel traffico, e non voglio farmi precedere da una delle altre blindate, preferisco vedere prima di tutti quel che ho davanti; dietro, nelle altre due macchine, ci sono otto colleghi: quelli che occupano i posti posteriori stanno seduti di traverso rispetto al senso di marcia, schiena contro schiena, con gli M12 imbracciati: la Polizia non ha saputo evitare la strage, ma adesso si gioca a carte scoperte, dal momento che non se ne può fare più a meno.

Anche a Casal del Marmo hanno alzato i livelli di allerta: incontro auto che pattugliano il perimetro esterno del complesso, mentre all’interno c’è personale in stato di allerta. Mannoia mi dice, con amarezza e insofferenza, che l’innalzamento delle misure di sicurezza ha riguardato anche la sua persona, e che viene inquadrato dalle telecamere senza interruzione.

La cosa non è facile da sopportare, le sue obiezioni sono ragionevoli: non c’è riservatezza neppure per il lutto, bisogna sorvegliare i potenziali nemici, non chi ti sta offrendo la collaborazione, eppure mi rendo conto che allentare le misure appena rafforzate dopo la strage di Bagheria costituirebbe una pesante responsabilità; nessuno se la sente, almeno per ora.

L’Opinel

In quei giorni capita un altro episodio che fa aumentare il credito di cui godo da parte di Mannoia; siamo in ufficio, al Nucleo, per esigenze investigative, e sto preparando le carte per la scorta dell’indomani: devo fare una fotocopia del provvedimento di Giovanni Falcone che dispone la traduzione per l’interrogatorio e mandarlo per la notifica al difensore.

I fogli sono spillati, la levapunti stenta, fatico a staccare la graffetta metallica che unisce il provvedimento vero e proprio dal frontespizio del fax. Dal cassetto della scrivania tiro fuori il mio coltello Opinel, lo apro e allargo il maledetto punto. Mannoia mi osserva, guarda con interesse il mio Opinel. – Bello! – esclama con convinzione – E accenna ad allungare la mano per guardarlo meglio, ma il gesto si ferma a metà. Sono secondi, frazioni di secondo, non ho tempo per fare valutazioni troppo ragionate.

Siamo soli nella stanza, all’interno del Nucleo Centrale Anticrimine, la finestra è chiusa anche con una grata metallica e un’evasione mi pare alquanto improbabile, anche se non si può mai dire. Il coltello è di rispettabili dimensioni, chi mi dice che non gli venga in mente di usarlo contro di sé, specie in considerazione dei recenti lutti, della condizione attuale e dell’incertezza del futuro? Sono secondi, frazioni di secondo. Prima che lui abbia il tempo di ritrarre il braccio teso a metà, gli porgo il coltello, dalla parte del manico.

Lo guarda, ne apprezza l’impugnatura di legno lucido, con la scritta trasversale, la lama affilata dalla forma caratteristica. Osserva il meccanismo ad anello che lo mantiene aperto, lo ruota, poi lo chiude accuratamente mettendolo in sicura e me lo restituisce.

Non ci sono state parole, ma capisco che lui sa perfettamente cosa mi è passato per la mente, ha letto i miei dubbi e ha apprezzato la mia decisione di fidarmi. Difficilmente un uomo d’onore commette atti di autolesionismo: nella cultura mafiosa c’è anche l’educazione alla sopportazione e ad accettare le avversità con dignità, ma io non so ancora quasi niente di mafia e del concetto di dignità, ho accettato il rischio e mi sono fidato per istinto, non per calcolo.

Un gesto, è stato solo un gesto, banalissimo agli occhi di un osservatore, ma ha consentito a due persone di spiegarsi e di comprendersi meglio di tante parole.

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