All’ipotesi “che si fossero inserite nell'azione mafiosa patologie estranee”, la Dia infatti perveniva, con speciale riferimento alla strage di via D’Amelio, sulla base di un dato storico incontrovertibile: la strage venne eseguita pochi giorni prima che si concludesse in Parlamento la discussione sulla conversione in legge del dl 8 giugno 1992. Non è sostenibile che i capi di Cosa Nostra non fossero consapevoli dell’effetto controproducente
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del decreto di archiviazione dell’inchiesta “Sistemi criminali”, della Procura della Repubblica di Palermo, del 21 marzo 2001.
Dal panorama delle dichiarazioni dei collaboranti finora esposte emergono con evidenza i contorni del piano eversivo oggetto del presente procedimento, originariamente delineato nelle dichiarazioni di Leonardo Messina.
Le rivelazioni dei collaboranti trapanesi, catanesi, calabresi e pugliesi hanno consentito di individuare il coinvolgimento nel “piano” delle altre “mafie” italiane. Tutte dichiarazioni, peraltro, risultate puntualmente riscontrate in ogni parte suscettibile di concreta verifica. E di seguito si evidenzieranno numerose altre risultanze investigative che costituiscono ulteriori e specifiche conferme del quadro probatorio finora illustrato.
Va segnalato comunque che non sono state riportate nella presente richiesta, seppur acquisite agli atti, le dichiarazioni di numerosi altri collaboratori, palermitani e non, che hanno riferito quanto da loro rispettivamente appreso all’interno di Cosa Nostra in ordine agli obiettivi perseguiti con le stragi del ’92 e del ’93. Si tratta di dichiarazioni che in prevalenza convergono nell’individuare la causale dei fatti stragisti del ’92 nella reazione di Cosa Nostra all’esito, infausto per l’organizzazione, del maxiprocesso in cassazione.
Nell’ambito di tale ricostruzione, l’omicidio dell’on. Salvo Lima come quello di Ignazio Salvo sarebbero state vendette di Cosa Nostra nei confronti dei tradizionali “referenti” che non avevano mantenuto gli impegni assunti, dimostrando di non essere in grado di garantire l’impunità ai capi dell’organizzazione; e le stragi di Capaci e di via D’Amelio sarebbero state la reazione contro due nemici storici di Cosa Nostra, che avevano legato la propria storia professionale proprio al maxiprocesso.
Con riferimento – invece – alla stagione stragista del ’93, la maggior parte dei collaboranti l’ha attribuita alla reazione di Cosa Nostra alla stretta repressiva dello Stato dopo le stragi del ’92, culminata nell’applicazione del regime carcerario duro emblematicamente rappresentato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Molte di tali dichiarazioni sono anch’esse acquisite agli atti del presente procedimento (cfr., fra gli altri, gli interrogatori di Gioacchino La Barbera, Santino Di Matteo, Emanuele e Pasquale De Filippo). Se ne omette tuttavia la specifica citazione, trattandosi di dichiarazioni che attengono direttamente ai fatti stragisti di competenza delle Autorità Giudiziarie di Firenze e Caltanissetta. È appena il caso, tuttavia, di rilevare che dette dichiarazioni non appaiono in alcun modo costituire una smentita del quadro probatorio finora illustrato per vari ordini di motivi.
In primo luogo, tali moventi non sembrano per nulla incompatibili col progetto eversivo del ’90-’91, ben potendo trattarsi di moventi specifici ed ulteriori che veni vano ad innestarsi in un piano criminale a più ampio respiro. Anzi, è plausibile che l’esito del maxiprocesso, infausto per l’organizzazione nonostante gli impegni assunti dai tradizionali referenti politici, abbia costituito l’ultimo episodio, l’ultima conferma per Cosa Nostra dell’inaffidabilità, dal suo punto di vista, di quella classe politica e quindi della necessità di “rinnovare” i propri referenti politici, regolando i conti con i vecchi “garanti”.
E che, nello stesso contesto, obiettivi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel ’92, e quelli individuati per gli attentati del ’93 siano stati ritenuti, in quel frangente, i più idonei – per una pluralità di motivi anche eterogenei – per la realizzazione del progetto eversivo. Del resto, l’ipotesi di un movente ulteriore ed occulto delle stragi, convergente con quello “tradizionale” di Cosa Nostra, venne già avanzata dalla Dia nella citata nota n. 4222/94 del 4 marzo 1994, prendendo le mosse da “talune anomalie rispetto agli schemi comportamentali tradizionali di cosa nostra”.
All’ipotesi “che si fossero inserite nell’azione mafiosa patologie estranee”, la Dia infatti perveniva, con speciale riferimento alla strage di via D’Amelio, sulla base di un dato storico incontrovertibile: la strage venne eseguita pochi giorni prima che si concludesse in Parlamento la discussione sulla conversione in legge del dl 8 giugno 1992, poi convertito nella legge 7 agosto 1992, ed il dibattito parlamentare aveva evidenziato resistenze da parte di varie forze politiche alla conversione di alcune norme, sicché appariva poco consono alla tradizionale prudenza di Cosa Nostra avere impresso una accelerazione all’esecuzione della strage, così finendo per agevolare la rapida conversione in legge del decreto con una serie di significativi inasprimenti [in nota: nella citata informativa della Dia, in particolare, si evidenziava: “In un momento così delicato, a soli due mesi di distanza dalla strage di Capaci, l'esecuzione di un secondo gravissimo omicidio, per cui non esisteva alcuna apparente motivazione di urgenza, non sembra sia da ricondurre esclusivamente agli interessi immediati di “cosa nostra”.
L’organizzazione mafiosa, adusa a ponderare con cura le proprie mosse, non poteva non considerare che l'impatto sull'opinione pubblica sarebbe stato fortissimo e che altrettanto forte sarebbe stata la richiesta di adozione di severe misure di contrasto alla criminalità.
Difatti con l'omicidio Borsellino cadde ogni perplessità nei confronti del provvedimento governativo che venne addirittura inasprito. L'apparente incongruenza della decisione presa da "cosa nostra" non può quindi trovare giustificazione se non interpretando la sua condotta come espressione della volontà di perseguire fini diversi da quelli logicamente ad essa attribuibili, quali quello di provocare il rinvio di un processo o impedire ad un magistrato di proseguire in una inchiesta capace di arrecare gravi danni all'organizzazione o semplicemente eseguire una vendetta”].
Né è sostenibile che i capi di Cosa Nostra non fossero consapevoli dell’effetto controproducente che sarebbe derivato all’organizzazione dall’esecuzione della strage di via d’Amelio, come dimostrano le rivelazioni del collaboratore Pasquale Galasso circa l’attenzione con la quale i boss mafiosi seguivano l’evolversi della vicenda della conversione in legge del decreto Martelli del giugno 1992 [in nota: Pasquale Galasso, nell’interrogatorio reso al P.M. di Roma il 3 febbraio 1994, dichiarava: “Adr - nel luglio del 1992 a seguito dell’applicazione del decreto Martelli e più in particolare dell’art. 41 bis di detto decreto fui trasferito con urgenza a Spoleto, se non ricordo male intorno al 20-25 di quel mese, lì al secondo piano (seconda sezione) ho avuto modo di incontrarmi con diversi capo-clan fra cui D’Alessandro Michele, Gionta e tale “Ceccio” di “Rione Traiano”, i Mariano, ed un po’ tutta la criminalità campana.
Adr - c’era anche Catapano Raffaele anche se poi di lì a poco fu tra sferito all’Asinara. In quei giorni di trasferimenti, eravamo tutti sconvolti ancora dai provvedimenti che lo Stato aveva preso e prendeva ancora nei nostri confronti, specie durante i passeggi parlavamo in continuazione della necessità di reagire a quella situazione di emergenza che si era creata dal momento che venivamo trattati come carne da macello: ricordo che in quel carcere all’epoca c’erano Calò, Gionta, Brusca Giovanni, che faceva l’invalido. C’era chi afferma va che era necessario ammazzare le guardie carcerarie o il direttore del carcere di Spoleto oppure questo o quel magi strato napoletano o investigatore napoletano, che particolarmente si era distinto nell’incriminare diversi di noi.
……...
Adr - non sentii parlare di attentati nei confronti di musei in modo specifico, ma sentii parlare di progetti di attentati da farsi in tutta Italia, ripeto che le persone che vedevo intorno erano tutte esasperate da quello che stava suc cedendo. Tramite Gionta, che da sempre era notorio essere referente di Calò della Campania, seppi che Pippo Calò ci invitava a stare tutti calmi per attendere se effettivamente il 7 agosto il decreto Martelli fosse stato ratificato dal Par lamento, ognuno dopo sarebbe stato libero di prendere le iniziative che voleva contro lo Stato. Il Calò voleva in concreto che si pianificassero i dissidi tra i vari clan proprio per far fronte comune nei confronti dello Stato.
ADR - questo di cui sto riferendo è accaduto in quei 10 - 15 giorni che seguirono l’applicazione di quel decreto, infatti di lì a poco Pippo Calò fu trasferito all’Asinara, così pure il Catapano ed altri detenuti”].
Va inoltre rilevato che le dichiarazioni relative alle causali dei fatti stragisti del ’92 e del ’93 si riferiscono, in gran parte, a notizie apprese nel periodo immediata mente antecedente e, ancor di più, successivo alla commissione dei singoli delitti. In epoca, dunque, diversa rispetto a quella della costituzione dell’associazione eversiva oggetto del presente procedimento, sicché è verosimile che in tale fase la strategia complessiva perseguita non sia stata comunicata a tutti i membri dell’organizzazione che non vi erano coinvolti fin dall’inizio.
Né può ritenersi che costituisca un elemento idoneo a smentire l’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboranti, finora esaminate, la semplice circostanza che altri collaboratori, seppur di indiscutibile spessore, abbiano dichiarato di non saper nulla né del “piano”, né di riunioni svoltesi ad Enna.
Come si osserva nella motivazione della sentenza sulla strage di Capaci, emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 26 settembre 1997, “…la strategia elaborata nel corso della riunione di Enna riferita dal Malvagna e dal Pulvirenti non era finalizzata ad un’immediata operatività, quanto meno per gli attentati più eclatanti, come l’omicidio Lima e la strage di Capaci, che verosimilmente non erano stati neanche specificamente trattati, perché non sarebbe stata comunque prudente compiere azioni di quel genere in Sicilia nell’imminenza del giudizio della Suprema Corte di Cassazione e, quindi, la deliberazione dei tempi e modi di quei crimini doveva essere rimandata ad un momento successivo, più vicino a quello dell’esecuzione.
E, tuttavia, quella riunione aveva una sua particolare utilità per il Riina, in quanto gli serviva a verificare il consenso di tutti i rappresentanti delle varie province ad una strategia di così ampia portata da non poter essere certo preparata ed attuata in tempi brevi, sic ché il Riina ben poteva dopo tale consenso compiere gli ulteriori necessari passi che dovevano gradatamente portare all’esecuzione dell’omicidio Lima prima ed alla strage di Capaci poi.
Né deve meravigliare il fatto che l’esistenza della riunione non fosse nota agli affiliati, pur di grado elevato, alle “famiglie” palermitane, poiché la compartimentazione delle conoscenze nell’ambito di quelle strutture, di gran lunga più arti colate su diversi livelli gerarchici rispetto alla “famiglia” catanese facente capo al Santapaola, rendeva certamente meno facile ad un consociato palermitano non di rettamente coinvolto nella vicenda di venire a conoscenza di un incontro tra i verti ci delle varie province rispetto a quanto non lo fosse per un consociato catanese di livello elevato qual era certamente il Pulvirenti, dalle cui confidenze il Malvagna aveva tratto la sua conoscenza della riunione, in virtù del suo stretto rapporto an che familiare con lo stesso.”
Tali considerazioni, contenute nella sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, appaiono ancor più condivisibili alla luce delle rivelazioni di Sinacori sui nuovi moduli organizzativi e operativi di speciale segretezza interna delle informazioni adottati da Riina nel 1991, di cui si è già detto a proposito dell’istituzione della c.d. “supercosa”.
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