Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore


La luce, io mi ricordo la luce: non mi piaceva.

E non mi piaceva nemmeno quello che già a quel tempo, loro, chiamavano “bunkerino”, una fortezza di piccole dimensioni dentro quel palazzo maestoso che era il Tribunale di Palermo. Ma era la luce che mi rendeva perplesso.

Accesa fin dalle prime ore del mattino, luce di lampade, luce di neon. Perché le loro stanze, quelle di Giovanni e di Paolo, davano sul cortile interno e, nonostante la presenza di grandi finestre, il sole là sotto sembrava che proprio non ci volesse arrivare.

Quando andavo a trovare i miei due colleghi, ogni volta ponevo la stessa domanda: “Ma come fate, come fate a stare rinchiusi qui senza intristirvi, senza la luce del giorno, sempre con quelle lampade accese”.

Non mi rispondevano, alzavano lo sguardo e sorridevano con gli occhi, senza dirmi nulla. Solo una mattina uno di loro, non ricordo se fosse Falcone o se fosse Borsellino, ma credo Paolo perché rispose in dialetto siculo, con il quale amava esprimersi: «Sì, vabbè, poi m’a sai cuntare», poi me la saprai raccontare. Non capii l’allusione.

L’ho capita molto tempo dopo, quando ricevetti dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto la telefonata che mi ha cambiato la vita. Poi me la saprai raccontare... E in effetti, passati quasi quarant’anni, qualcosa da raccontare ce l’ho.

Voglio però fare subito un piccolo passo indietro.

Prima della telefonata di Caponnetto, ne avevo ricevuto un’altra di telefonata, quella del consigliere aggiunto Marcantonio Motisi che mi chiedeva di fare parte di un pool che si sarebbe occupato di indagini relative ai reati contro la pubblica amministrazione, che in realtà non fu mai costituito. Ma la cosa a me non interessava. Con tutto il garbo dovuto, senza avere ancora la più lontana idea che mi sarebbe stata richiesta dal consigliere Caponnetto la disponibilità a fare parte del pool antimafia, ringraziai Motisi per la stima e la considerazione nei confronti della mia persona e rifiutai l’opportunità datami, spiegandone i motivi.

Qualche tempo dopo, Motisi affermò che la causa del mio rifiuto risiedeva nel fatto che avevo considerato quell’offerta un “delitto di lesa maestà”, perché volevo occuparmi solo di mafia. Non era vero, volevo occuparmi di tante altre tipologie di reati e non specializzarmi su quelle relative alla pubblica amministrazione.

Poi venne il giorno dell’altra telefonata che finalmente mi fece capire il significato “recondito” delle parole di Giovanni e Paolo. Quella telefonata non mi ha di certo allungato la vita, come recitava una famosa pubblicità di parecchi anni fa, ma sicuramente me l’ha cambiata, e anzi, considerata la pericolosità del “lavoro” che mi attendeva se avessi accettato, in fondo, avrebbe anche potuto rendermela piena di rischi per la mia incolumità.

In quel momento dimenticai per sempre che la luce artificiale del “bunkerino” mi dava così fastidio. Perché anche io ho occupato quelle stanze (prima quella di Paolo, quando si trasferì a Marsala, poi quella di Giovanni, dopo la sua partenza per Roma) dove il sole non arrivava mai.

Cosa ricordo di quel giorno? Ricordo tutto, come se fosse ieri.

Correva il mese di aprile del 1984.

Mi trovo nel mio ufficio quando squilla il telefono, alzo la cornetta e, dall’altro capo del filo, sento la voce inconfondibile del nostro consigliere, il quale, senza tanti preamboli, chiede la mia disponibilità a entrare a far parte, insieme a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, del pool antimafia già formalmente costituito nel mese di novembre 1983.

Mi spiega che l’inchiesta assegnata a Falcone stava lievitando, era sterminata e che, per fare fronte alla enorme mole degli atti processuali, alla complessità delle indagini e ai quotidiani impegni, era necessario dotare il pool di un altro componente, e che la sua scelta, anche dietro suggerimento di Falcone, Borsellino e Di Lello, era caduta, tra tutti gli altri giudici istruttori in servizio (pure tra coloro che vantavano maggiore anzianità di carriera e maggiore esperienza), sulla mia persona. C’era bisogno di qualcun altro che si impegnasse anima e corpo a “scalare” quella montagna di carte, di assegni, di intercettazioni, di informative, di relazioni di servizio, di vecchi rapporti giudiziari sepolti negli archivi.

Rimasi sorpreso e lusingato dalla proposta e, in verità, anche un po’ frastornato. Chiesi a Caponnetto di concedermi del tempo per decidere. Ma la cosa che mi fu subito chiara era che se avessi accettato la vita mia e della mia famiglia sarebbe cambiata per sempre. A cominciare dalla libertà.

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