Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 21 al 25 giugno a Lamezia Terme.


Come e quando nasce l'idea di scrivere questo libro?

Nel 2021 ho curato la scrittura del docufilm “DIA 1991 – Parlare poco, apparire mai”, prodotto da RaiCinema e 42°Parallelo e realizzato per il trentennale della Direzione investigativa antimafia, l’istituzione creata e voluta da Giovanni Falcone. In quella occasione avevo conosciuto gli agenti della DIA, molti dei quali in pensione, ed ero rimasta fortemente colpita dalle loro storie e dall’emotività che attraversava il loro presente come se il passato delle inchieste fosse ancora vivo e continuasse a compiersi davanti ai loro occhi. Confesso che all’inizio non avevo molta voglia di occuparmi di questo progetto, mi aspettavo la solita retorica sbirresca e invece la postura di questi investigatori, i segni che si portano addosso, il prezzo che hanno pagato, le emozioni che non temono di nascondere, la loro generosità sono stati elementi che mi hanno agganciata e mi facevano sentire l’urgenza di un racconto. Un racconto che inevitabilmente volevo far vivere non solo sullo schermo per un documentario ma anche sulla pagina perché il libro offre un altro passo e ancor più lo fa il romanzo: dà profondità, ampiezza e universalità alle vicende narrate tutelando l’identità delle persone coinvolte e consentendo uno slancio narrativo che potenzialmente può arrivare a tanti tipi di lettori, non solo quelli appassionati di storie di mafia. Infatti, la forma narrativa che ho scelto (un agente della DIA in pensione racconta al figlio la sua vita da investigatore che fino a quel momento gli ha tenuto nascosta per ragioni di sicurezza) consente l’ingresso nell’inchiesta che porta alla cattura di Bagarella ad un pubblico molto ampio: i padri, i cercatori di pezzi inediti di storia italiana, le nuove generazioni per via del linguaggio scelto e per l’adrenalina dell’inchiesta, moltissime donne che si ritrovano nello sguardo femminile di chi scrive a conoscere l’universo maschile di questo racconto. Ho scelto quindi come oggetto del racconto l’inchiesta e la città da cui l’esperienza della DIA ha avuto inizio: Palermo. L’idea di questo libro è stato un modo per restituire non solo l’impegno di uno Stato silenzioso ma anche un punto di vista diverso per raccontare lo stesso Giovanni Falcone attraverso l’istituzione da lui voluta e creata, diventata operativa solo dopo le stragi del 1992. Un’istituzione, direi piuttosto un corpo composto da questi giovanissimi investigatori che hanno riscattato un padre dello Stato catturando i suoi assassini. Per questo il libro racconta l’inchiesta vera e documentata della cattura di Leoluca Bagarella ma è anche il romanzo del rapporto struggente tra un padre e un figlio perché fin dai primi incontri con questi investigatori sono rimasta colpita da una condizione che ha attraversato tutta la loro esistenza: loro hanno sacrificato la loro vita e i loro affetti non per la gloria ma per il sentimento della giustizia e per consegnare un mondo più giusto anche ai loro figli ma proprio con questi figli che non hanno mai potuto dare un significato pieno all’assenza dei loro padri si trovano ad essere in conflitto. Questo conflitto, straziante a livello umano, narrativamente è diventato il perno attorno a cui far girare le pagine di “Occhi di lupo, cuore di cane”. Il romanzo è sempre la possibilità di dire cose che altrimenti non si possono dire. Per questo nel libro ho immaginato un padre, investigatore della DIA in pensione, che scrive una lettera al proprio figlio per raccontargli la vita che ha condotto e lasciargli una sorta di eredità con l’invito a ristabilire un rapporto.

Raccontare "da dentro" il mondo della Dia. Quali sono gli obiettivi che volevi fare emergere e quali anche le "emozioni" che volevi suscitare nel lettore?

Volevo far compiere un’esperienza al lettore: vivere come vive un agente della DIA, pensare come pensa lui, sentire quello che sente lui. In questo modo il lettore viene calato in una “guerra” come direbbe il protagonista di “Occhi di lupo, cuore di cane”. In un conflitto, preferisco dire io. Un conflitto che è tra lo Stato e la mafia ma è anche tra un uomo con la sua famiglia, tra un padre e un figlio. In questa immersione nella mente di un investigatore la prima regola che si apprende è l’abnegazione, il sacrificio della propria vita privata a favore dei ritmi, dei tempi e delle esigenze dell’inchiesta. Prima viene l’attività investigativa, dopo tutto il resto. Si entra corpo a corpo nel “dietro le quinte” dell’indagine venendo a conoscenza anche di alcuni elementi inediti. Questa urgenza che gli agenti hanno vissuto e che ho cercato di restituire nella pagine del libro con un ritmo agganciante richiedeva l’uso del tempo presente perché era l’unico modo per tirare dentro il lettore: stare in quella Peugeot durante i pedinamenti per le strade di Palermo dopo le stragi, conoscere la famiglia scelta dei fratelli colleghi, sentire lo strappo dalla moglie e il figlio lontani. Ed è sempre il tempo presente che porta il lettore all’oggi, alla realtà del protagonista in pensione che fa i conti con la sua vita privata a pezzi e che si trova a compiere un viaggio a Palermo dopo trent’anni per il funerale di un suo collega fraterno. È questa l’occasione per rivivere attraverso dei flashback l’inchiesta degli anni Novanta. In questo montaggio delle pagine che vanno avanti e indietro tra presente e passato questa prima persona con cui l’investigatore si racconta, rivolgendosi al figlio, spesso diventa una seconda persona. Ed è proprio questo “tu” a interrogare il lettore, ad afferrarlo nelle contraddizioni emotive di questa vita avventurosa e nelle scelte dilanianti sul campo. Alla fine, immerso nella piccola storia di un investigatore della DIA il lettore avrà la sensazione di aver attraversato la Storia di questo Paese.

Un tuo commento sul difficile lavoro dell'agente della Dia in quegli anni a Palermo

All’indomani delle stragi del 1992 nessun poliziotto o carabiniere o finanziere voleva andare a Palermo. La città veniva da anni di ammazzamenti prima ancora delle stragi in cui hanno perso la vita Falcone e Borsellino. Per le strade di Palermo c’erano i blindati e l’esercito con i mitra spianati. Questa era la Sicilia di quegli anni ed è in quel clima che arrivano gli investigatori della DIA, scelti tra i migliori tra le diverse forze di polizia. Sono giovanissimi, hanno tra i 25 e i 35 anni, lasciano famiglie e figli e arrivano in Sicilia dove troveranno altri colleghi che hanno già lavorato sul campo nella lotta alla mafia e hanno la memoria storica del contesto. Vivono sotto copertura in alberghi di quart'ordine e iniziano a fare la stessa vita dei latitanti che devono catturare “perché se non vivi come loro non li prenderai mai”. Vivono nell'ombra, hanno a disposizione mezzi rudimentali. I cellulari li hanno i mafiosi, loro devono andare alle cabine telefoniche per chiamare a casa. Ma hanno intuito, spirito di sacrificio e sono animati dal sentimento altissimo di una missione che li unisce come fratelli. In più vengono da forze diverse e devono trovare per la prima volta un modo di lavorare insieme. E dopo aver passato trent’anni a vivere la vita degli altri, Franco Lomuto (il nome fittizio del protagonista del romanzo) quando va in pensione e ritorna a essere se stesso, si chiede chi sia lui adesso. Senza il lavoro si sente di non servire più a niente. Restano i ricordi, la convinzione di aver fatto la scelta giusta. E restano le parole di Giovanni Falcone che nel libro il protagonista ascolta attraverso un walkman: “Si è istituita una rete di solidarietà di amicizia e di comune credo negli stessi ideali che prescinde dalla mia persona e che non sarà disperso.”

© Riproduzione riservata