La struttura durerà dieci anni, dal settembre del 1982, dai funerali di Dalla Chiesa, al dicembre del 1992, quando Falcone e Borsellino sono morti da mesi e la Dia diventa realtà. Solo allora l’Alto commissariato sarà smantellato come fosse un carrozzone pubblico, uno dei tanti. Costellato di misteri, il decennio dell’Alto commissariato, tra una strage e l’altra, si conclude con un fatturato pari a zero
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Che cosa è accaduto prima che quello scontro si consumasse? Lo Stato, quello Stato che gli aveva negato i poteri di intervento invano richiesti nei suoi cento giorni da prefetto di Palermo, dopo la morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel settembre del 1982 ha rispolverato l’idea di confinare alle competenze di un Alto commissariato per la lotta alla mafia in Sicilia tutta l’azione investigativa e di intelligence.
In breve, quella struttura, inaugurata dal governo Spadolini, diventa una superprefettura a forte impronta governativa che con centra informazioni ed emana direttive, tiene i contatti con gli apparati dei Servizi, gestisce alcuni collaboratori di giusti zia, interferisce pesantemente con gli organismi investigativi territoriali e ha una interlocuzione diretta con la magistratura inquirente.
Accreditando l’intima convinzione che la mafia sia affare siciliano con nessuna proiezione nazionale: un fatto locale, quasi antropologicamente connaturato all’esistenza stessa del popolo isolano. È l’edificio che sorregge l’idea di allontanare da Roma il sospetto di una mafia annidata nelle pieghe dello Stato.
L’Alto commissariato, nell’immaginario, è il presidio di legalità nella terra degli infedeli, il fortino sicuro che garantisce l’ordine lì dove regna il disordine. Il primo a presiederlo è Emanuele De Francesco, che si tiene vicino Bruno Contrada. Si succederanno poi Riccardo Boccia, Pietro Verga, Domenico Sica che batterà nella corsa alla nomina lo stesso Falcone, e Angelo Finocchiaro. De Francesco e Finocchiaro arrivano a Palermo direttamente dal Sisde.
La struttura durerà dieci anni, dal settembre del 1982, dai funerali di Dalla Chiesa, al dicembre del 1992, quando Falcone e Borsellino sono morti da mesi e la Dia diventa realtà. Solo allora l’Alto commissariato sarà smantellato come fosse un carrozzone pubblico, uno dei tanti, che fino ad allora ha resistito provando a ritagliarsi una nicchia di potere che le creature di Falcone promettono di spazzare via. Costellato di misteri, il decennio dell’Alto commissariato, tra una strage e l’altra, si conclude con un fatturato pari a zero.
Anzi, pare abbia remato costantemente contro.
Il pentito Rosario Spatola imputa all’essere stato sotto custodia dell’Alto commissariato una certa ritrosia a fare il nome di Bruno Contrada all’avvio della sua collaborazione. Falcone gli attribuiva il fallimento dell’operazione di collaborazione con la giustizia di Tano Badalamenti.
Dall’Alto commissariato tireranno fuori il nome del giudice Alberto Di Pisa come l’autore di lettere anonime che screditano Falcone. E quando Di Pisa, che non ci sta a passare per il Corvo, si difende sollevando più di un dubbio sui metodi di indagine dell’Alto commissariato, Sica dirà che proprio Falcone gli ha fatto il nome di Di Pisa, inaugurando una delle stagioni dei veleni palermitani.
Quando, tra il 1988 e il 1990, il professor Giuseppe Giaccone, algologo di fama con la passione per la politica che lo porta ad amministrare da socialista dissidente il piccolo comune di Baucina alle porte di Palermo, prova a scatenare con le sue rivelazioni la prima mafiopoli siciliana, appalti per miliardi negoziati direttamente dalle cosche alla Regione siciliana, l’Alto commissariato interviene a proteggerlo.
Allora Giaccone, che fino a quel momento ha parlato con i carabinieri di Mario Mori e dell’allora capitano Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Falcone, cambia idea e anzi lascia intendere che il suo legale, Pietro Milio, De Donno e il solito Falcone gli hanno estorto le sue dichiarazioni. E i veleni tracimano.
Nella sua testimonianza del 1999, Arlacchi colloca Contrada tra i “cattivi” e, sia pure in posizione più sfumata, mette nella stessa casella anche il generale Mori, considerato dalla Procura di Palermo uno degli artefici della trattativa Stato mafia della primavera del 1992. Il generale, portato a processo per la mancata perquisizione del covo di Riina, è stato assolto.
Così come, […], per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. A processo, come vedremo, per la trattativa. Ma su questo punto l’opinione di Arlacchi diverge da quella dei giudici di Palermo: per lui non si trattò di un accordo che coinvolgeva le istituzioni, ma fu un’iniziativa circoscritta ad alcuni uomini della Dc e ad alcuni carabinieri da un lato e Cosa Nostra dall’altro.
«Dopo le stragi del 1993 – prosegue il sociologo – si consolidò presso i vertici della Dia l’idea che le stragi avessero una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto – e cioè il gruppo Contrada –, fosse uno dei terminali della trattativa.
Quando nell’intervista faccio riferimento, per le trattative allora in corso, “al Ros”, intendo riferirmi al colonnello Mori; sospettavamo, infatti, che vi fosse in atto un’azione di depotenziamento delle indagini della Procura di Palermo, anche tramite contatti con appartenenti a Cosa Nostra che convincevano l’associazione della possibilità di uscire in qualche modo indenne dalla fase delle indagini compiute dal pool di Palermo.
Il prefetto Parisi era certamente a conoscenza di questa situazione, ma il suo atteggiamento è sempre stato quello di cercare una mediazione con questi ambienti – intendo riferirmi al gruppo di Contrada – poiché era a conoscenza di quanto potessero essere pericolosi e cercava, pertanto, di contenerne l’azione».
Nell’intervista oggetto dell’interrogatorio, Arlacchi aggiunge una considerazione molto precisa: «Quegli apparati infedeli tentarono il colpo grosso, nel 1989, con la bomba all’Addaura contro Giovanni Falcone. Gli andò male, ci riprovarono con successo tre anni dopo a Capaci». Decisamente più riduttive le ricostruzioni di De Gennaro, che nella sostanza ha escluso che i sospetti sul conto di Contrada fossero così corposi.
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