Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza d'appello, presidente del tribunale Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte


Avverso la sentenza della Corte d'Appello proponevano ricorso per Cassazione la difesa dell'imputato ed il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo, quest'ultimo limitatamente alla pronuncia di assoluzione per le condotte successive al 1992 e con riferimento a cinque ordinanze pronunciate nel 2008, 2009 e 2010 con le quali erano state decise questioni istruttorie. Con sentenza del 9 marzo 2012 la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo ed ha annullato la sentenza della Corte d'Appello nel capo relativo al reato del quale l'imputato era stato dichiarato colpevole (con riferimento al periodo compreso tra il 1978 ed il 1992), rinviando per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Palermo.

I giudici di legittimità preliminarmente hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo alle ordinanze con le quali la Corte d'Appello aveva respinto le istanze di rinnovazione del dibattimento proposte dalla difesa, rilevando che dette istanze avevano riguardato non già, come aveva sostenuto l'impugnante, prove acquisite nel corso di indagini difensive effettuate successivamente alla sentenza di primo grado, ma prove ''preesistenti'' a detta sentenza e che, in quanto tali, potevano essere introdotte nell'istruttoria in appello alla condizione" di vincere la presunzione di completezza dell'istruttoria già compiuta", così come previsto dall'art. 603, I comma c.p.p.

In particolare gli stessi giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo di ricorso della difesa laddove era stata denunciata l'illogicità della decisione della Corte d'appello che non aveva ritenuto decisiva l'assunzione nella qualità di testi dei seguenti soggetti: - i domestici della Villa di Arcore di Berlusconi (al fine di confutare l'attendibilità del collaborante Di Carlo Francesco in ordine all'incontro tra Berlusconi e Bontade, che aveva costituito "l'antecedente logico e storico dell'assunzione di Mangano"ad Arcore); - coloro che si erano occupati della ristrutturazione degli uffici della Edilnord. Ha rilevato la Suprema Corte che la mancata descrizione degli arredi di detta società da parte dello stesso Di Carlo ben poteva collegarsi a diversi motivi e non già, necessariamente alla "falsità" delle dichiarazioni; Silvio Berlusconi, che nel giudizio di pnmo grado si era avvalso della facoltà di non rispondere ed in ordine al quale - secondo i giudici di legittimità - la difesa non aveva allegato elementi concreti da cui desumere che l'audizione "sarebbe stata concretamente idonea a vincere la presunzione di completezza della istruzione dibattimentale ed avrebbe apportato chiari elementi innovativi rispetto al panorama probatorio acquisito".

È stata poi ritenuta "ineccepibile" la motivazione del rigetto della domanda di ammissione della videoregistrazione della intervista del giudice Paolo Borsellino. E' stato poi ritenuto inammissibile il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa aveva dedotto la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ( motivo che veniva proposto anche con riferimento alla asserita violazione dell'art. 6 della Cedu) "specie sotto il profilo della enorme amplificazione dei temi d'indagine e la violazione dell'art. 430 c.p.p. essendosi trovata, la stessa difesa, nell'impossibilità di fronteggiare tutti i temi e le acquisizioni proposte dalla accusa e ammesse dai giudici".

Si è ritenuto che la formulazione fosse generica e manifestamente infondata, tenuto conto, da un lato delle ragioni addotte dalla Corte d'Appello, che i giudici di legittimità hanno ritenuto di condividere e dall'altro della" riperimetrazione (in senso quantitativamente riduttivo) della rilevanza della questione posta dalla difesa dovuta alla riduzione della condotta ritenuta meritevole di condanna, condotta dalla quale è stata esclusa in maniera definitiva ( a seguito della inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale) la parte del concorso che era stato ipotizzato in relazione al presunto patto politico - mafioso".

Gli stessi giudici hanno poi ritenuto del tutto inammissibile il motivo di ricorso proposto dalla difesa che aveva lamentato la violazione dell'art. 6 Cedu ed hanno sostenuto, a tal proposito, come la difesa non aveva allegato rispetto a quali accuse era stato limitato, in concreto, il proprio mandato. Il Procuratore Generale della Cassazione ritenendo di riprendere il motivo di ricorso appena enunciato dedotto dalla difesa ( ma in realtà aggredendo "un punto nuovo e diverso rispetto alla questione sollevata dalla difesa'') - aveva fatto notare (nel corso della propria requisitoria e nelle note depositate ali 'udienza di trattazione del ricorso) che nel caso in esame era mancata l'imputazione, "nel senso che quella formulata era generica, insufficiente secondo i criteri della giurisprudenza Cedu e, secondo i giudici di merito, surrogata dalla contestazione dei fatti su cui sono caduti i mezzi di prova:evenienza, quest'ultima, che renderebbe ancor più atipica la già atipica fattispecie del concorso esterno); con la conseguenza che detto difetto, avrebbe coinvolto la stessa tenuta logica della motivazione e che doveva essere demandata al giudice del rinvio " la precisazione della condotta di rilevanza penale".

La Corte di Cassazione, ritenendo " impossibile apprezzare" detta richiesta sotto molteplici punti di vista, ha voluto sottolineare che non poteva trovare spazio la soluzione proposta dal Procuratore Generale di investire il giudice del rinvio del compito di precisare la condotta avente rilevanza penale, rilevando che sì operando si sarebbe attribuito a detto giudice un potere che non era previsto da alcuna norma.

Dopo avere ribadito l'infondatezza del motivo di ricorso della difesa rilevando che il fatto ritenuto in sentenza non era "altro" e non era "diverso" da quello contestato, ma era il medesimo, la Suprema Corte ha reputato fondata la censura difensiva relativa alla " tenuta della motivazione" per quanto concerneva una serie di fatti databili a partire dal 1978, rilevando che la motivazione, per quella parte, aveva risentito "della mancanza di sponda derivante dalla formulazione della imputazione "per grandi linee" e si era dunque articolata in una serie di condotte non sempre aderenti alla prospettazione accusatoria.

E' stata altresì dichiarata l'inammissibilità del secondo motivo ricorso per genericità e manifesta infondatezza nella parte in cui era stata dedotta la violazione del principio del " ne bis in idem" con riguardo a due processi che si erano conclusi con due sentenze di proscioglimento dell'imputato, emesse dal G.I.P. di Milano nel 1990. E' stato a tal proposito, rilevato che detta violazione era stata proposta alla Corte d'appello come motivo di impugnazione e che detto giudice aveva" correttamente" illustrato i motivi in base ai quali detta censura doveva reputarsi infondata. E' stata poi decisa l'inammissibilità del motivo di ricorso con il quale era stato censurato, in termini del tutto generici, il criterio di valutazione dei collaboranti di giustizia adottato dalla Corte d'Appello.

Orbene i giudici di legittimità con riguardo, ad esempio, al collaborante Cucuzza, hanno sostenuto che le dichiarazioni rese da quest'ultimo, in quanto confermate da riscontri esterni (la presenza di Mangano ad Arcore e le dichiarazioni di Galliano e di Di Carlo), erano state poste a fondamento della condanna del Dell'Utri per il concorso esterno relativo al primo periodo, mentre lo stesso collaborante non era stato ritenuto autore di affermazioni sufficienti ed idonee a provare l'esistenza di un patto politico con "cosa nostra" in quanto le stesse si erano presentate come frutto di un ricordo confuso in contrasto con quanto riferito da altri collaboratori. […].

Fatte le superiori premesse i giudici di legittimità hanno rilevato che la consapevolezza e volontà del fine perseguito dall'imputato, indicato e motivato dalla Corte d'Appello come fine di conservazione proprio del sodalizio mafioso, con particolare riferimento all'acquisizione di "nuove e proficue relazioni patrimoniali" era stata individuata nelle forme proprie del dolo diretto e ciò in linea con la citata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; dolo che non era contraddetto dal fatto che fino al 1978 l'imputato era stato mosso anche dalla volontà di risolvere il problema della sicurezza dell'amico Berlusconi e che, in relazione al quel periodo temporale era stato caratterizzato dalla consapevolezza e dalla volontà che la condotta in esame si sarebbe posta "nella linea del perseguimento dei fini ultimi dell' associazione criminale", come la Corte d'Appello aveva motivato citando i significativi incontri tra Dell 'Utri e soggetti mafiosi di vertice. La Corte di Cassazione, in tale prospettiva ha rievocato gli episodi riportati nella sentenza della Corte d'appello che apparivano idonei a supportare la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo diretto di Dell'Utri e che non potevano in alcun modo giustificare la ricostruzione alternativa proposta dalla difesa che intendeva, invece, attribuire all'imputato il ruolo della vittima costretta soltanto a subire. Sono stati indicati pertanto: - l'incontro presso il ristorante milanese "Le Colline Pistoiesi" avvenuto tra il 1975 ed il 1976, incontro che la Corte d'Appello - con motivazione reputata del tutto logica dai giudici di legittimità - aveva ritenuto sintomatico della considerazione in cui Dell'Utri era tenuto all'interno di "cosa nostra" "quale soggetto affidabile" da potere coinvolgere in relazioni estremamente riservate del sodalizio mafioso, perché riguardanti personaggi come Mangano, il quale lo aveva presentato come il suo "principale" e Antonino Calderone che accompagnava a Milano il fratello che era un boss mafioso che ricopriva un ruolo apicale all'interno dell'associazione mafiosa; -la partecipazione di Dell'Utri alla cena con Stefano Bontade avvenuta nella villa di quest'ultimo intorno al 1977, evento che era stato reputato indicativo dei rapporti che Dell 'Utri intratteneva con i boss mafiosi, rapporti che non consentivano di considerarlo una "vittima".

La Corte di Cassazione ha voluto mettere in risalto che l'importanza attribuita correttamente dai giudici di merito ai suddetti episodi, non aveva assunto il significato del superamento della tesi ribadita in giurisprudenza secondo cui le frequentazioni e le vicinanze con soggetti mafiosi non costituivano prova del concorso esterno. Detti episodi, cioè, erano stati ritenuti capaci di "colorire" prove di altro spessore costituite ''primariamente " dalla promozione dell'incontro di Milano del 1974 con i capi mafiosi, dal raggiungimento, in quella sede, dell'accordo per la protezione di Silvio Berlusconi e dal versamento per alcuni anni, da parte di quest'ultimo, tramite Dell'Utri, di cospicue somme di denaro a "cosa nostra".

Detti comportamenti, sono stati reputati dalla Suprema Corte indicativi del fatto che Dell'Utri "avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dell'intera operazione". Proseguendo l'esame dell'elemento psicologico del delitto in contestazione, la Suprema Corte ha sostenuto l'illogicità e la incompletezza della motivazione nella parte relativa alla disamina del dolo nel periodo successivo al 1978 specificando inoltre che "nel quadriennio e quinquennio successivo ali' allontanamento di Dell'Utri dall'area imprenditoriale berlusconiana, si è rilevata addirittura una carenza di motivazione riguardo ali 'elemento oggettivo che, se solo superabile, renderebbe rilevante e da emendare anche la carenza dei requisiti ulteriori del reato".

Per il periodo successivo al ritorno di Dell'Utri a Publitalia, in relazione ai numerosi elementi che la Suprema Corte ha ritenuto problematici e che riguardavano "essenzialmente i comportamenti riluttanti di Dell'Utri verso cosa nostra nonché gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti ali 'attività imprenditoriale di Berlusconi", è stata richiesta ai giudici del rinvio una valutazione "unitaria e non parcellizzata" che sia in grado di dare "un senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti".

Da un lato, cioè, la condotta dell'Utri che si era risolta oggettivamente in un arricchimento di "cosa nostra", ma che negli anni '80 era "divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici" nei riguardi degli esponenti mafiosi ed "in contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall'altro lato il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzione e che richiederebbe che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, potesse darsi una spiegazione compatibile ed in linea con la tesi secondo cui Dell'Utri avrebbe accettato e perseguito l'evento del rafforzamento del sodalizio mafioso recando un contributo alla realizzazione del programma comune.

La prova della suddetta finalizzazione non poteva - secondo l'assunto dei giudici di legittimità - ritenersi acquisita negando o misconoscendo , così come era stato fatto nella sentenza della Corte d'Appello la valenza di emergenze che si sono contraddistinte, "ali 'apparenza, come segni del contrario e cioè di una possibile caduta della precedente unitarietà d'intenti". Di detti comportamenti la Suprema Corte ha chiesto una "nuova giustificazione probatoria ad opera del giudice di rinvio "essendo apparso il ragionamento effettuato dalla Corte di merito insufficiente nella parte in cui, anzichè motivare sulle cause di certe prese di distanza da parte di Dell'Utri nei confronti di cosa nostra anche in costanza degli attentati, si era soffermata sulle conseguenze delle prime (le prese di distanza nei confronti dell'associazione mafiosa) e dei secondi (gli attentati) e sulla "asserita significatività della ripresa di contatti tra le parti " nonostante" quegli eventi". Riprendendo l'argomento della prescrizione la Corte di Cassazione ha esaminato il motivo di ricorso con il quale la difesa dell'imputato - rilevando che i pagamenti non si erano protratti oltre 1986 - aveva asserito che il reato si era prescritto.

La Corte di Cassazione ha rilevato:

-che la Corte d'Appello, sulla base delle dichiarazioni rese da Ferrante, la cui credibilità sul tema era stata adeguatamente analizzata, aveva sostenuto che i pagamenti si erano protratti con cadenza semestrale o annuale fino al 1992, con la conseguenza che il termine di prescrizione - ove in sede di rinvio venisse data una congrua motivazione sull'elemento psicologico del dolo nel periodo già indicato- decorreva da tale data;

-che il delitto in esame aveva natura permanente e che la permanenza cessava "nel momento in cui il concorrente aveva perso il potere e la capacità di far cessare gli effetti pregiudizievoli del proprio comportamento antigiuridico il quale, però, deve ritenersi abbia visto il momento d'inizio della rilevanza causale nella data del raggiungimento dell'accordo o della rinnovazione dell'accordo col quale ha prodotto un rafforzamento della mafia";

-che il patto - diversamente da quanto ritenuto dalla difesa - non era il fatto consumativo di un reato istantaneo, "ma un evento dotato di rilevanza causale per la vitalità del sodalizio " per cui i suoi effetti antigiuridici hanno conservato efficacia permanente individuabile nei pagamenti che i giudici di merito avevano ritenuto procrastinati, secondo quanto riferito da Ferrante, "fino a tutto il 1992;

che, dunque il giudice del rinvio aveva il compito di "nuovamente esaminare e motivare, con percorso argomentativo diverso da quello contenuto nella parte di motivazione censurata, se il concorso esterno contestato è oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico del ricorrente anche nel periodo di assenza dell'imputato dall'area imprenditoriale Fininvest e società collegate (periodo intercorso, secondo la sentenza impugnata, tra il 1978 ed il 1982); se il reato contestato è configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche nel periodo successivo a quello indicato" e di pronunciarsi eventualmente a seconda della decisione adottata, sulla prescrizione del delitto - che non è oggetto di rinvio sull'an - ai sensi dell'art. 129, I comma c.p.

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