Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Secondo la tesi accusatoria fatta propria dalla Corte d’Assise di primo grado, il mancato rinnovo di tutti i 334 decreti applicativi del 41 bis venuti a scadenza nel mese di novembre del 1993 fu l’epilogo non annunciato ma concertato e preordinato di un’operazione orchestrata fin dall’inizio - con l’avallo e l’imprimatur del Capo dello stato ma sotto la regia occulta di Mario Mori - per giungere a quel risultato, e avviata già con l’avvicendamento improvviso dei vertici del Dap e la nomina assolutamente inattesa di Francesco Di Maggio a vicedirettore generale, ad affiancare il mite, anziano e imbelle Capriotti.

E la giustificazione addotta dallo stesso ministro di aver voluto con quel gesto dare solo un segnale di distensione che valesse a far decantare la tensione sarebbe soltanto un pretesto per dissimulare la vera e indicibile ragione superiore, performante di quella decisione: attenuare la stretta carceraria, mediante un vistoso ridimensionamento dell’ambito di applicazione di quello strumento normativo e amministrativo, assurto a simbolo della durezza dell’azione repressiva dello stato nei riguardi delle organizzazioni criminali mafiose.

Le dichiarazioni del ministro Conso

[…] Tanto premesso, è necessario tornare ad esaminare, anche a costo di qualche ripetizione, le dichiarazioni di Giovanni Conso , […]. I giudici del processo Mori/Obinu ritengono oggettivamente poco attendibile che l’anziano ministro abbia maturato la sua decisione in assoluta solitudine senza parlarne neppure con suoi più stretti collaboratori (come invece lui ha dichiarato: “Non parlai con i miei collaboratori poiché non mi fidavo e temevo che le notizie finissero sulla stampa....”), e in particolare con i tecnici e i funzionari del dicastero, cioè i funzionari (più esperti e competenti) dell’Ufficio detenuti, che abitualmente istruivano e le pratiche relative ai trattamento dei detenuti e quelle del 41 bis in particolare (e in particolare, il vice direttore dell’Ufficio detenuti dot. Calabria che si avvaleva di uno staff di funzionari tra i quali il dot. Capriotti pur serbando ricordi sfocati della vicenda, annovera la dott.ssa De Carli).

E in effetti sembra davvero poco credibile che non ne abbia fatto cenno al Direttore generale e capo del Dap (e tuttavia è proprio quello che ha sempre dichiarato il dott. Capriotti, che lo avrebbe appreso solo dai giornali); o non ne abbia parlato almeno con il dott. Calabria che è l’autore e firmatario della Nota del 29 ottobre ‘93 che prefigura quale fosse l’orientamento di massima del dipartimento (prima ancora che quello del ministro) per i decreti in scadenza a novembre.

Gli stessi giudici ritengono di contro che «non sussistono concreti e decisivi elementi che consentano di ritenere provato che egli abbia ricevuto impulsi esterni perché non rinnovasse i provvedimenti de quibus»; e che «si deve ammettere la possibilità che egli, reso edotto o. comunque. persuaso del grave pericolo che la massiccia applicazione dello speciale regime previsto dall'art. 41 bis creava per l’ordine pubblico in stretto collegamento con le azioni stragiste di Cosa nostra, si sia autonomamente deciso a ridurne notevolmente il peso. sperando, così. di scongiurare ulteriori, cruente iniziative. Non si può comprendere lo sviluppo degli avvenimenti se non ci si cala nel contesto in cui gli stessi sono maturati, che giustificava profonde preoccupazioni per l’ordine pubblico dettate dall’eventualità di nuovi, sanguinosi attentati posti in essere dai mafiosi».

In realtà sta qui la radice del problema.

Un conto è affermare che, in mancanza di adeguata dimostrazione, non si può imputare la determinazione di inviare un segnale di distensione, momentaneamente cedendo sull’applicazione del regime speciale previsto dall’art. 41 bis, quale frutto di una trattativa con i mafiosi: e sotto questo profilo è credibile l’anziano giurista e Maestro di procedura penale quando, nel rievocare in varie sedi la drammatica contingenza politico istituzionale vissuta in quello scorcio finale del 1993, esclude di avere mai avuto anche solo sentore di trattative tra esponenti dello stato ed esponenti mafiosi […]; altro è concludere che sia stata invece frutto di una riflessione solitaria del ministro Conso , totalmente affrancata da informazioni e suggerimenti esterni, ossia provenienti da apparati istituzionali esterni al suo dicastero, come peraltro gli stessi giudici del processo Mori/Obinu sono propensi a ritenere, quando scrivono di una riflessione del ministro Conso , eventualmente suggerita da altri apparati istituzionali, spinti dalla pressante esigenza di evitare che si realizzassero le fosche previsioni di devastanti attentati.

La nota della DIA

I documenti prodotti dai migliori analisti dei massimi organismi investigativi e di intelligence attivi in quegli stessi mesi mettono in guardia circa possibili collegamenti della ripresa degli attentati con il crescente malessere e i fermenti di protesta che agitavano la popolazione carceraria - e soprattutto i detenuti mafiosi di minore livello o di livello medio - per la durezza delle misure restrittive inerenti al regime del 41 bis, e quindi con la questione del trattamento carcerario, da un lato (cfr. nota Dia del 10 agosto 1993: […]); e, dall’altro, con la linea della fermezza del governo con particolare riguardo all’applicazione sistematica regime speciale predetto (cfr. ancora nota Dia del 10 agosto 1993: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ed il sostanziale fallimento della campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia, hanno sicuramente concorso, insieme ad altri fattori, alla ripresa della stagione degli attentati.[...]”).

Al contempo, ammoniscono a non mostrare alcun segno di cedimento proprio su quel terreno (“Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”; ed ancora: “Dopo Via Fa tiro gli attentati hanno assunto le caratteristiche di avvertimenti e di intimidazioni. Le bombe, seminando vittime spesso impreviste, lanciano un segnale di grande capacità distruttiva e di efficienza organizzativa, i cui effetti appaiono volutamente circoscritti. È come se gli ispiratori di tale strategia avessero ritenuto di poter raggiungere i propri scopi limitandosi, in un primo momento, a fare sfoggio della propria forza e sottintendendo, al contempo, la minaccia di azioni più devastanti e sanguinose.

Da Via Fauro in poi tutti gli attentati vengono eseguiti al di fuori della Sicilia e sono caratterizzati soprattutto dall’intento di suscitare il massimo clamore possibile e di creare sconcerto e disorientamento tra la gente. Scopo evidente è quello di far cadere il consenso sociale verso l’azione repressiva dello stato contro la mafia e indurre l’opinione pubblica a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il contrasto alla criminalità organizzata.

Siffatta strategia è senz’altro idonea ad insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che, in fondo, potrebbe essere più conveniente abbandonare una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di “cosa nostra” a condizioni in qualche in odo più accettabili da parte dei mafiosi. Un significativo precedente lo troviamo in un recente passato in Colombia, dove le continue stragi poste in essere dai trafficanti di droga costrinsero lo stato a trattare e il Governo a modificare la legge che consentiva l’estradizione dei trafficanti negli Usa).

Ora, se ci si riferisse a simili documenti per inferire che ad essi il ministro potrebbe avere attinto le informazioni riservate poste a base delle proprie valutazioni, non sì farebbe che dare risalto all’antinomia di una scelta operata in netto disaccordo non solo con la linea ufficiale del Governo, ma anche con i suggerimenti degli analisti più avveduti e le informazioni più preganti sugli scenari in atto, sui possibili sviluppi e sulle conseguenze di una scelta di cedimento anche solo temporaneo all’intimidazione mafiosa. E ciò, da un lato, basterebbe a far dubitare che Conso potesse assumersi una simile responsabilità senza il conforto di autorevoli condivisioni della sua scelta.

Dall’altro, si accrediterebbe Conso del potere di accedere ad un circuito estremamente riservato di documenti destinati a circolare solo nell’ambito più ristretto degli addetti ai lavori, anche se proprio sul documento della Dia, che era stato trasmesso lo stesso 10 agosto 1993 in via assolutamente riservata al ministro dell’interno, s’era verificata una limitata fuga di notizie essendo stati pubblicati uno o due articoli sul quotidiano La Repubblica che riportavano alcuni stralci di quel documento (come ben ricorda il dott. De Gennaro).

D’altra parte, il documento predetto, nello sforzo di decrittare la cifra criminale dei tragici avvenimenti di Roma Firenze, Milano, delineava scenari molto più ampi, e non circoscritti al solo obbiettivo di ottenere un allentamento della stretta carceraria per i detenuti mafiosi, che, peraltro, veniva adombrato solo come ipotesi, e nel quadro di una lettura in chiave di generica (finalità di) ritorsione contro il “trasferimento dei boss in particolari istituti di pena, in attuazione dell’art 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario”, e il fatto che le “grazie alle pesanti restrizioni imposte alla vita carceraria ed in particolare all’isolamento, che ha notevolmente limitato ogni forma di contatto con l’esterno, i detenuti non sono più riusciti ad esercitare efficacemente la loro azione di comando dall’interno delle carceri, venendo in tal modo delegittimate perdendo potere all’interno dell’organizzazione”; con la conseguenza che ne “è derivata per i capi l’esigenza di ria/fermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa”

In tal senso non v’è contraddizione tra il tenore dell’analisi sviluppata nel documento e la contestuale presa di posizione dello stesso De Gennaro, in rappresentanza della Dia, nella seduta del 10 agosto 1993 del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza. In quella sede, in fatti, il dott. De Gennaro, al contrario del dott. Di Maggio e dello stesso Capo della Polizia, Parisi, escluse un collegamento diretto tra gli ultimi attentati e la reiterazione dei decreti applicativi del 41 bis [...], optando per una lettura di contesto molto più ampia.

Infatti, pur ritenendo che la matrice degli attentati in oggetto dovesse individuarsi nell’ambito del crimine organizzata, con la certezza che, in tale ambito, Cosa nostra era la componente più accredita del necessario know-how anche sotto il profilo della capacità logistiche ed operative, grazie anche ad una progressiva penetrazione nei circuiti della criminalità locale in città come Roma (con particolare riguardo ai rapporti intessuti con la c.d. Banda della Magliana” e a contatti con appartenenti all’eversione di estrema destra), Milano (che aveva registrato il radicamento di personaggi del calibro di Luciano Liggio, i fratelli Fidanzati, i fratelli Bono e altri), Firenze (con l’insediamento in Toscana di gruppi di estrazione siciliana e napoletana dediti al narcotraffico e confluiti poi sotto la direzione di Cosa nostra) e sull’asse Padova-Venezia, con la conseguente possibilità di operare nelle città colpite dagli attentati anche utilizzando risorse criminali del posto tuttavia il documento apriva all’ipotesi che Cosa nostra avesse agito in sinergia con altre forze criminali portatrici di interessi diversi ma convergenti nel comune obbiettivo di seminare il terrore, alimentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e indebolire l’autorità dello stato; e concludeva rinnovando l’esortazione a non recedere dalla linea della fermezza nell’azione di contrasto all’emergenza criminale in atto: “Lo scenario criminale delineato stillo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza della presenza operativa di “cosa nostra”. Ha altresì lasciato intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa.

[…] Non si tratterebbe, quindi, di una organizzazione di tipo verticistico […]. Non è da oggi che “cosa nostra “, sodalizio dalle connotazioni anche eversive, mantiene collegamenti con altre organizzazioni al fine di supportare ipotesi golpiste o azioni stragiste.

In passato sono stati accertati suoi rapporti con ambienti dell’eversione di destra: valga per tutti l’esempio, ormai giudiziariamente provato, del golpe Borghese. Recenti indagini condotte in Calabria pongono in evidenza l’esistenza di collegamenti fra Franco Freda, all’epoca latitante, ed elementi di spicco della ‘ndragheta reggina, strettamente legati a “cosa nostra’, come si evince dalla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’On.le Romeo. Da ultimo vi è il riscontro offerto dall’esito del procedimento penale sull’attentato al treno rapido 904 del 23.12.1984, che ha consentito di condannare affiliati a “cosa nostra” che operarono in collusione con elementi della malavita napoletana e personaggi legati a gruppi estremisti di destra. Per quanto riguarda il coinvolgimento di ambienti diversi dalla criminalità organizzata, comune ed eversiva, ci sono prove di collusioni con ambienti massonici a rischio.

Le informative del CESIS e dello SCO

[…] La nota riservata del 6 agosto 1993 a firma del Generale Tavormina. n.q. di segretario generale del Cesis, trasmesso il 7 agosto al ministro dell’interno Mancino, oltre ad individuare in Cosa nostra l’organizzazione criminale più accreditata come responsabile di quegli attentati, sia pure senza escludere l'apporto di altre organizzazioni criminose come la camorra e la ‘ndrangheta o di ambienti affaristici di varia natura legati al mondo dell'illecito o ancora di centrali di potere occulto, e invitando a valutare con attenzione anche la possibilità di collegamenti con l’area dell’eversione di estrema destra, riconduce il più probabile movente alle tensioni e alle pressioni nel settore carcerario. […] E si pone in evidenza il possibile collegamento degli ultimi attentati con la previsione che si era diffusa nell’ambiente carcerario secondo cui i provvedimenti applicativi del 41 bis che andavano a scadere tra il 20 e il 21luglio 1993 (ossia i primi che diedero applicazione concreta, per la firma del ministro Martelli, al nuovo regime di carcere duro) non sarebbero stati rinnovati; “Giova rammentare che, contrariamente alla previsione — largamente diffusa nell‘ambiente penitenziario — secondo cui i provvedimenti di sottoposizione a regime differenziato non sarebbero stati rinnovati alla scadenza, il 16 luglio 1993 il ministro di Grazia e Giustizia, su proposta del Dipartimento, ha proceduto alla proroga, per ulteriori sei mesi, di 244 provvedimenti a suo tempo adottati. È significativa la circostanza che detti provvedimenti sono stati notificati tra il 20 e il 27 luglio 1993. [...]”.

Come evidenziato dalla sentenza impugnata (pag. 2.400), nell’attribuire a Cosa nostra e in particolare alla componente corleonese la paternità degli attentati, sia pure senza escludere altri possibili e concorrenti apporti criminali, la Nota del Cesis individua la causa scatenante della furia stragista nella proroga dei decreti applicativi del 41 bis, decisa dal ministro della Giustizia (Conso ) con propri provvedimenti del 16 luglio, che avrebbero deluso un’aspettativa diffusasi nelle carceri. Il documento non specifica da dove una simile aspettativa avesse tratto origine, ma è lecito supporre che vi avessero contribuito l’avvicendamento improvviso dei vertici del Dap, all’indomani della strage di Firenze (ovvero una settimana dopo), interpretato come un segnale di volere voltare pagina nella politica carceraria del Dipartimento, e il sentore che si ebbe di un effettivo intendimento della nuova governance di modificare in particolare l’orientamento in materia di applicazione del 41 bis, secondo le linee di riforma compendiate nell’Appunto a firma del nuovo Direttore generale Capriotti e trasmesso al ministro Conso in data 26 giugno 1993, che rassegnava l’esigenza di non inasprire il clima di tensione all’interno delle carceri e di lanciare invece un segnale di distensione attraverso opportuni interventi che rimodulassero l’applicazione dell’art. 41 bis, riducendolo in misura significativa.

Certo è che il menzionato passaggio della Nota del Cesis rispecchia la riflessione affidata dal dott. Di Maggio all’intervista a Liana Milella pubblicata su Panorama del 22 agosto a proposito delle bombe di Roma e di Milano come possibile reazione ad aspettative prima suscitate nell’ambiente carcerario e poi deluse. E la corrispondenza non è casuale se si considera che la Nota del Cesis compendia l’esito cui erano pervenuti i partecipanti al gruppo di lavoro interforze che si era costituito per una prima approfondita analisi della situazione all’indomani degli attentati del 27-28 luglio; e a quelle riunioni aveva partecipato anche il dott. Di Maggio.

[…] Un altro documento che, nel contesto di un’analisi più approfondita degli scenari legati agli ultimi attentati e dei possibili sviluppi, ripropone e dà risalto al link tra la questione del trattamento carcerario per i detenuti mafiosi e il probabile movente di quegli attentati (o comunque la strategia criminale ad essa sottesa) è la nota del Sco della Polizia di stato del 12 agosto 1993, […].

La nota del Sco evidenzia tra l’altro che i 5 episodi di strage avvenuti in continente si saldano alle stragi siciliane della primavera-estate del ‘92 in un unico disegno strategico (“cinque attentati verificatisi nelle città di Roma, Firenze e Milano si collocherebbero in un medesimo disegno terroristico, ordito dal gruppo di “palermitani” che si colloca attualmente al vertice di “Cosa nostra”, e rappresenterebbero la prosecuzione della strategia “delle bombe” avviata nel maggio dello scorso anno in Sicilia”) avente come obbiettivo quello di giungere ad una trattativa con lo stato sui problemi che affliggono l’organizzazione mafiosa, quali la stretta carceraria e il pentitismo […]. In tale contesto, gli attentati non erano intenzionalmente diretti a provocare delle stragi, ma servivano a creare le premesse per un trattativa con lo stato, indebolendone l’autorità e seminando il panico nell’opinione pubblica: una trattativa che Cosa nostra avrebbe potuto condurre utilizzando anche canali istituzionali [...]. E l’inciso sulla possibilità che Cosa nostra ricorresse a canali istituzionali è indizio inequivocabile che ai vertici degli apparati investigativi più impegnati sul fronte delle indagini sulla criminalità organizzata si aveva sentore del fatto che un canale di comunicazione fosse stato già aperto per quella ipotetica trattativa; o che, almeno, Cosa nostra avesse già individuato i soggetti che potevano fungere da emissari e intermediari. […] Ma anche per la Nota Sco del 12 agosto vale la considerazione che si faceva prima sul carattere riservato di questi documenti di analisi e sull’esserne la circolazione ristretta ad una cerchia selezionata di addetti ai lavori circolazione (Né v’è sentore di una fuga di notizie come per la nota Dia). […].

La “scelta” di non rinnovare i decreti di novembre

Le ragioni di fondo della scelta di non rinnovare i decreti che scadevano a novembre, che, nelle dichiarazioni testimoniali del 24 novembre 2010, sono appena adombrate, vengono invece focalizzate nel corso dell’audizione che si era tenuta dinanzi alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta dal Senatore Pisanu poco meno di 15 giorni rima, grazie a una serie di incalzanti e mirate richieste di chiarimento rivolte all’audito dai vari membri della Commissione.

E senza infingimenti, di quella scelta viene chiesto conto all’ex ministro, anche in relazione ai sospetti e alle accuse circolate in ordine all’ipotesi che potesse rientrare, sia pure a sua insaputa, nel grande gioco di una trattativa tra la mafia e lo stato. […] Anzitutto, nelle dichiarazioni rese alla procura di Palermo, due settimane dopo, lo stesso Conso insiste nella ricostruzione secondo cui la sua scelta si fondava su una speranza che era però supportata dalla consapevolezza di una frattura all’interno di Cosa nostra tra due linee strategiche contrapposte e di un mutamento nelle scelte dell’organizzazione grazie all’avvento di una nuova leadership. Ma mentre è costante l’indicazione dei connotati di questa nuova leadership, è molto più cauto nell’affermare che già all’epoca si sapesse che si trattava di Provenzano. […] E il nocciolo consiste nell’essere stata la scelta di Conso a suo tempo sostenuta non solo da una metafisica speranziella, come pure vorrebbe, il dichiarante, dare a intendere (“A spiegare la mia mancata spinta al rinnovo era proprio questa esigenza di vedere come potevano andare le cose, una speranziella sottesa, senza proclamarla, senza mandare dei messi; lasciar fare alle cose. E probabilmente è stato capito, mi auguro almeno. Oramai sono vent‘anni”), ma da elementi di analisi e di conoscenza della situazione in atto e dei possibili sviluppi, veicolategli da fonti bene informate, che nutrivano quella speranza di un qualche fondamento di ragionevolezza.

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