Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Stavo su un’altura fra Melilli e Priolo, e cento metri più innanzi, sul declivio, cominciava ad estendersi la fantastica città industriale per tutto l’arco del golfo da Augusta fino a Scala Greca, un’immagine davvero straordinaria e forse senza confronto sull’intero territorio nazionale.

Altrove esisteranno, certo, stabilimenti più giganteschi, opifici più alti ed imponenti, ma distaccati l’uno dall’altro in uno spazio che denota la crescita lenta e l’ordine naturale delle cose.

In nessun altro posto invece l’opera industriale dell’uomo si ammucchia così freneticamente, il fuoco delle ciminiere, gli immensi grovigli dei tubi e delle raffinerie, i pontili, i forni, i nastri semoventi, la sequenza dei depositi metallici come una fila di dirigibili, le gru, e tutto questo fin dove l’occhio umano riesce a guardare, senza mai un varco, un’insenatura. I soli spazi vuoti erano coperti da un tappeto di migliaia di auto camion e pullman.

Era il crepuscolo, cioè un’ora in cui questa immagine sembra ancor più dilatarsi per tutto l’orizzonte marino, e i fuochi acquistano violenza, anche i vapori diventano rossastri, e decine di migliaia di luci confondono definitivamente le dimensioni, trasformando tutta la plaga marina in una specie di gigantesca metropoli. Il dato di fantascienza è l’assenza totale della figura umana.

Tranne quella distesa immobile di automobili, che peraltro sembrano abbandonate da anni per una catastrofe improvvisa, tutte le altre sagome e strutture sembrano in effetti fuori dalla misura umana, troppo piccole e troppo grandi, in definitiva assurde perché l’essere umano possa starci. Anche le cinquanta petroliere e navi container, immobili sul mare, con piccole luci di posizione, sembravano vascelli abbandonati dagli equipaggi. Dinanzi a me, in quello spazio di cento metri, fra il ciglio della strada e le prime torri di metallo, c’era un solo essere umano.

Era immobile, ma era vivo.

Stava con entrambe le mani poggiate ad un grande bastone infisso quasi sulla terra, e con il petto poggiato sulle mani. Così immobile pareva poggiasse sul bastone tutto il peso della sua stanchezza. Ogni tanto sollevava la testa impercettibilmente e lanciava un lieve urlo a metà fra un lamento e un richiamo.

Concludeva quel grido con due o tre parole gutturali che non appartenevano ad alcuna lingua, sembrava arabo, ma nella realtà erano parole per il linguaggio delle bestie. Parlava alle sue bestie. Lungo quella striscia di terra c’erano infatti una ventina di mucche, sparpagliate per il campo con le teste abbassate a cercare l’erba. L’urlo le scuoteva per un attimo, facevano stancamente un passo e riabbassavano il collo fino a terra.

Capii che l’uomo, con quel grido, quelle parole che erano suoni soltanto, non diceva niente alle sue bestie, né ordini, né richiami, soltanto il bisogno di far sentire la sua presenza. Ma forse – l’idea però mi parve assurda – aveva bisogno di dire qualcosa, e non essendoci altri esseri viventi che le bestie, egli parlava alle bestie.

Tutta quella scena era quasi irreale: al cospetto di quella cosa immensa costruita da uomini, e che però era diventata disumana e nella quale la presenza dell’uomo sembrava scomparsa per sempre, c’era questo essere umano, completamente solo, il quale non aveva alcun essere con cui parlare se non le bestie. Era come se alla follia tecnologica fosse sopravvissuto solo questo essere vivente che, per pazzia, voltava le spalle al tempo e tornava indietro a cercare l’animalità, cioè l’antichissima verità della vita. Mentre scavalcavo il fossato e mi avvicinavo, egli mi guardò senza alcun gesto, o battito di ciglio.

Evidentemente per lui io appartenevo a quel mondo, fiammeggiante e però inanimato, dal quale egli era escluso, al quale anzi egli si sentiva sopravvissuto. Rispose alle mie domande senza una parola di più, e una volta soltanto, per un attimo, si chinò a raccogliere e scagliare una pietra contro una mucca che si accostava alla rete metallica dello stabilimento.

La pietra colpì con un tonfo l’animale alla groppa e la bestia fece solo uno scarto e due passi di sgomento, riabbassando il collo sull’erba. Si chiamava Sebastiano Calanna, e veniva dalle campagne di Tortorici, vagava così da una terra all’altra della Sicilia alla ricerca di un vallone, una scarpata dove ci fosse un po’ d’erba e un filo d’acqua per le bestie.

Camminava per giorni e giorni lungo le vecchie strade dell’isola, la sera sceglieva una campagna dove ci fosse lo spazio per creare un recinto alla mandria, accendere un piccolo fuoco, senza fare danno a nessuno e arrotolarsi quattro o cinque ore in una coperta fino all’alba. Io gli chiesi cosa facesse quand’era maltempo e pioveva, ed egli rispose che parava le spalle.

Disse infine: «Io ho tre figli, nessuno dovrà essere come me! Io ho preso la mia vita e l’ho buttava all’acqua e al vento. La vita come una bestia, sempre. Guardi come sono sporco, come sono incrostato di fango e di terra, cammino sempre, non posso fermarmi mai per tutta la stagione, mangio quello che capita, dormo per terra! Ora addio, perché qui anche l’erba è diventata veleno oramai. Passo quelle montagne e comincio a scendere la vallata dell’Anapo!»

Cominciò a parlare alle bestie, davvero a parlare con loro con grida e piccole parole rauche e violente, e la mandria cominciò lentamente a riunirsi e le bestie, una ad una, in fila, valicarono il fossato verso la strada e cominciarono a risalire verso le montagne. Erano bestie magre e quasi sfinite, con le ossa del costato che apparivano sotto il pelame, e il mandriano Sebastiano Calanna di Tortorici cominciò a camminare dietro di loro, con quel grande bastone.

Nemmeno per un attimo si volse a guardarci. Trent’anni fa migliaia di uomini erano così in queste vallate, stavano sulla terra, insieme alle bestie e come le bestie, dall’alba al tramonto; oppure vagavano per centinaia di chilometri da una provincia all’altra alla ricerca di un pascolo o di un filo d’acqua, e gettavano così la vita all’acqua e al vento.

Oggi la terra è diventata deserto per migliaia di chilometri quadrati, la terra è diventata sterpi, pietre, gramigna, ortica. E come poteva essere che generazioni di esseri umani potessero continuare a gettare all’acqua e al vento la loro vita? Fatalmente qualcosa doveva accadere per modificare il destino. Da qualche parte è stata la disperazione che ha indotto migliaia, centinaia di migliaia ad abbandonare il loro paese e cercare il diritto ad esistere su un’altra parte della terra.

Oppure è arrivato il mostro con la pancia gravida di veleni, il fuoco, il fumo, il fiato come un lezzo di fogna, ed ha cominciato a crescere, estendersi, ogni notte coprendosi di luci fantastiche, di fiamme sempre più alte. E pagare all’uomo un prezzo sufficiente a vivere. La prima industria che nacque, qui nel Golfo di Augusta, fu la Rasiom, imprenditore il cavaliere milanese Angelo Moratti, quello che poi avrebbe gestito l’Inter famosa delle due coppe dei campioni.

Comperò a credito una vecchia Liberty da diecimila tonnellate che il governo americano svendeva purché liberassero i suoi porti da questi relitti. ci caricò una vecchia raffineria del Texas, poco più di un gigantesco sfasciume, venduto a peso di rottame, una montagna di tubi, bulloni, caldaie.

Reclutò dieci tecnici per montare quel ferrovecchio e farlo funzionare, fece un contratto per l’importazione di greggio, e un altro per la fornitura di benzine raffinate. E prima che la Liberty, tutta sbilenca, tutta sforacchiata dalle cannonate della guerra, partisse dall’America, si guardò intorno per capire quale fosse la costa più adatta ad ospitare l’impresa.

Scelse Augusta perché le vecchie attrezzature militari della base fornivano un minimo di garanzia tecnica. ma soprattutto perché la manodopera di quel territorio si offriva al prezzo più miserabile: contadini all’acqua e al vento, braccianti che avevano lavorato solo cento giorni l’anno, manovali disoccupati, pecorai. Il prezzo di disponibilità di un essere umano è in rapporto diretto alla sua disperazione. La vecchia Liberty. portandosi nella stiva quella vecchia raffineria acquistata a peso di rottame. andava incontro ad una umanità che si poteva acquistare anch’essa a peso di rottame.

La logica della impresa industriale allora era quella. né a quel tempo alcuno si chiedeva cosa sarebbe accaduto nel territorio. come tutto quell’arco marino si sarebbe popolato di mostri che avrebbero lottato accanitamente ognuno per cercare il proprio spazio, e il mare avrebbe cominciato lentamente a morire con i suoi pesci, e le campagne sarebbero diventate deserto, e l’aria intossicata di veleni che gli uomini sarebbero stati costretti a respirare ogni giorno.

In quel tempo tutto pareva coincidere perfettamente, soprattutto la buona volontà: gli americani a vendere i loro rottami, gli italiani ad acquistarli per fare fronte al disperato bisogno di combustibile, la popolazione a cedere tutta quella plaga deserta pur di avere una fonte di lavoro sempre più vasta e sicura, i pecorai ed i contadini ad accettare un salario quotidiano definitivo e sufficiente comunque a sopravvivere. Stava accadendo una cosa gigantesca che avrebbe stravolto tutto, l’economia, i commerci, la cultura, la salute, i sogni, le abitudini della vita, le speranze, e sarebbe stato necessario capire per tempo tutto questo e dare un ordine logico agli avvenimenti in modo da appagare gli uomini e tuttavia salvare il loro destino futuro dentro il territorio.

Ma c’erano fame, avidità, ignoranza, speculazione. Marina di Melilli è l’immagine umana più grottesca del dramma che ha sconvolto il territorio di mezza provincia. Diciamo l’ultimo scampolo di umanità che per anni sia riuscito disperatamente a sopravvivere dentro un habitat in cui non c’era diritto a esistere. Il minuscolo paesino si stende lungo un chilometro di spiaggia, e per una profondità di poco più di duecento metri. proprio al centro del golfo fra Siracusa e Augusta. Ha una popolazione di 770 abitanti raggruppati in 170 nuclei familiari.

Ci sono tre strade parallele intersecate da una serie di minuscole traverse. Le case sono basse e squallide, le strade polverose, l’asfalto spaccato, qua e là qualche villetta proprio accanto al bagnasciuga. Una di queste è dell’imprenditore catanese Massimino e non si capisce per quale bizzarria mentale egli decidette di venire a costruirsi proprio al centro dell’inferno chimico questa palazzina di due piani con la piscina.

C’è anche una chiesetta che è stata edificata con le elemosine raccolte fra gli abitanti. A destra ed a sinistra l’abitato è schiacciato dai complessi industriali che lo sovrastano, alle spalle è recluso dalla ferrovia e da un altro stabilimento chimico. Dinnanzi ha il mare, grigio e morto. Fra la popolazione non c’è un disoccupato, lavorano tutti, comprese molte donne, nella zona industriale oppure ai servizi accessori. I salari e gli stipendi sono alti, in alcuni nuclei familiari, dove le unità lavorative sono tre o quattro, il reddito supera i due milioni al mese.

Rispetto al vecchio mandriano di Tortorici che cammina per centinaia di chilometri con il suo armento, cercando fili d’erba e d’acqua per le sue bestie, e vive come un animale, dormendo a terra e mangiando quello che capita, questi cittadini di Marina di Melilli sono certamente esseri umani che hanno conquistato un diritto civile alla vita, possiedono casa confortevole, un lavoro certo, una ricompensa adeguata, hanno il frigorifero, gli elettrodomestici, il televisore a colori, i soldi per il superfluo, per i libri, una vacanza, l’assistenza sanitaria garantita, la pensione, cioè complessivamente hanno dignità della loro condizione umana. E tuttavia sono infelici.

Per anni sono vissuti nella infelicità, nella paura, nell’incubo della malattia, respirando miasmi che facevano sentire sempre il vomito in gola, restando ogni notte con gli occhi spalancati nel buio per il tonfo sempre più vicino di macchine immense, soffi furenti di gas, turbìne che improvvisamente cominciavano a ronzare, e dentro il petto quei polmoni che facevano fatica a respirare, le finestre sprangate anche nel caldo dell’estate per evitare che la polvere li soffocasse.

Via via che il mostro industriale si accostava con i suoi fiati, i suoi tonfi, il clamore delle macchine che scavavano e costruivano, i suoi miasmi, l’infelicità di questa popolazione, che pure l’industria aveva redento dalla loro miserabile condizione, diventava un incubo, al punto che molti cominciarono ad ammalarsi, anzi a sentirsi ammalati per sintomi che spesso erano determinati più dal terrore che da un vero avvelenamento: tossi, raucedini, bronchiti, bruciori, chiazze rosse su tutto il corpo, piccole piaghe, una continua estenuazione fisica. La paura di perdere anni della propria vita, o peggio di rendere più breve la vita ai propri figli, può portare davvero alla infelicità, che talvolta è ancora una forma di demenza. In fondo la più grave delle malattie.

Ora è stato deciso l’abbandono del paese. Ogni proprietario di abitazione avrà il suo indennizzo di esproprio ed ogni nucleo familiare un’altra casa, sulle colline in direzione di Floridia.

Per questo minuscolo nucleo umano, sepolto proprio nel ventre del mostro, come un escremento che non si riusciva ad espellere, la situazione è diventata insostenibile da quando è iniziata la costruzione della ISAB, la nuova grandiosa raffineria (realizzata dal gruppo ENI, Garrone, Agnelli) e dalla entrata in funzione della COGEMA che produce magnesio lavorando il calcare delle montagne e l’acqua stessa del mare. A ridosso è in costruzione la nuova centrale termoelettrica dell’ENEL che costituirà, per quella minuscola popolazione, un autentico coperchio di tomba.

Prima che essa possa essere completata, la popolazione tuttavia dovrebbe essere completamente evacuata. I proprietari delle abitazioni riceveranno un indennizzo di legge per gli espropri, ogni nucleo familiare avrà una casa nuova in un villaggio che si sta costruendo sulle colline di Floridia, o in altri caseggiati popolari che sono in corso di edificazione verso la zona di Cassibile. Sono stati già stanziati quasi tre miliardi e mezzo, ed otto miliardi sono stati preventivati per indennizzi ed espropri ai 124 proprietari di casa ai quali dovrebbero dunque andare in media quasi sessantacinque milioni a testa.

Ed ecco che improvvisamente, con una specie di piroetta, questa tragedia tipicamente moderna assume la cadenza di un balletto tipico siciliano. A parte l’altissima cifra media di esproprio, godranno dell’indennizzo anche i proprietari non residenti, coloro che avevano una casetta nella zona e l’hanno da anni affittata ad altro nucleo familiare.

E si discute ancora se questi proprietari non residenti non abbiano anch’essi diritto ad uno dei nuovi appartamenti popolari. E c’è persino un tocco raffinatissimo di comicità. Uno dei nuclei familiari al quale è stata già assegnata la nuova residenza e la nuova casa, non ha potuto ratificare il contratto perché l’appartamento assegnato ricade in un’altra zona di accertato inquinamento.

Qualche volta presi anche a randellate quando facevano le barricate di protesta ed i blocchi stradali, magari taluni imprigionati per resistenza a pubblico ufficiale, malati veri e immaginari, con gli eczemi sul collo e l’alopece fra i capelli, la tossetta del bronchitico cronico, la paura di chi non sa ancora nemmeno (e chi lo sa in effetti?) se i veleni dell’aria hanno già prodotto danni irreversibili nel fisico, ognuno con l’incubo di dover vivere qualche anno in meno del giusto, questi 770 abitanti, blanditi con una piccola pioggia di milioni, saranno sparpagliati qua e là lungo le colline, e Marina di Melilli morirà per sempre.

Ad una cert’ora, all’alba, di un certo giorno, dal fondo della strada sbucherà una fila di bull dozer e comincerà a rovesciare quelle file di piccole case, compresa la villa con piscina dell’imprenditore Massimino, e si farà lungo il mare un grande spiazzo di un chilometro sul quale un’altra fila di macchine gigantesche comincerà subito a scavare le fondamenta di un altro stabilimento con altri fuochi perenni, torri di metallo, fiati tossici e scarico di veleni nel mare.

Dentro quest’area oramai deserta di comunità umane autentiche, dispersi dentro il groviglio delle macchine, senza diritto alla casa popolare, resteranno solo cinque esseri umani, cinque padri gesuiti che vennero a Marina di Melilli per capire quello che accade quando un intero territorio viene stravolto da un fenomeno industriale, e capire soprattutto come si stravolgono contemporaneamente i destini e gli animi umani, e partecipare dunque a questa modificazione.

Il primo che ho conosciuto è padre Damiani, è giovane, asciutto, con una bellissima faccia scura da saraceno. Mi ha detto: «Siamo venuti qui per la gloria di Gesù, ogni nostra azione, anche il lavoro, anche i pensieri, sono per la gloria di Gesù. Non basta dire messa, bisogna essere insieme alla gente, sentire la loro vera sofferenza, patire la loro identica paura, capire perché un essere umano oggi possa respingere Cristo!» Per guadagnarsi da vivere lavora come elettricista in un piccolo cantiere industriale. Abita, insieme ai confratelli, in una di quelle tetre casette dirimpetto al mare, una stanza nuda, un tavolo, una radiolina, i lettini, una cucinetta a gas.

Sono le dieci di sera, e due confratelli sono già tornati dal lavoro: Pasquale D’Alessandro, un giovanottino con i baffi biondi, sembra un giocatore di calcio, lavora come aiutante cuoco in un ristorante: Silvio Alaimo sembra invece un personaggio teatrale, un pulloverino rosso, i pantaloni di velluto, quasi calvo, piccolo, con le braccine tozze, una immensa barba ondeggiante in mezzo alla quale si apre una minuscola bocca infantile.

Lavora come saldatore in una fabbrica. Mangiano due uova fritte, pane e formaggio, aspettano che rientrino gli altri due confratelli, Enzo Ruggeri che fa il maestro e Nicola Barbosio, manovale. Resteranno a Marina di Melilli, non sanno ancora dove e come. Quel ragazzo con i baffi biondi dice: «Il nostro voto è povertà, castità e obbedienza, per il resto siamo come tutti gli altri esseri umani, con gli stessi dolori e le stesse speranze…».

Il confratello saldatore dice: «Noi non vogliamo che gli esseri umani si riaccostino alla chiesa per capirla, ma siamo qui perché la chiesa si accosti agli uomini e li capisca».

Fra qualche settimana, o qualche mese, le macchine schiacceranno anche la piccola chiesa di mattoni che i cinque gesuiti avevano costruito pietra su pietra con le loro mani. E stritoleranno anche quelle vecchie barche di pescatori abbandonate sulla rena. Da tanto non servono più!

Il mare è morto, inquinato da una infinità di sostanze chimiche, tutti gli umori che la zona industriale scarica continuamente nel golfo. I pesci oramai sono lontanissimi, una volta sfioravano le coste siciliane, passavano ad un miglio del promontorio di Agnone, sfioravano l’isola di Augusta, poi le scogliere di Scala Greca e puntavano diritti verso il mare di Pachino. Pesce azzurro, triglie, branchi di spada, folle di tonni che, estenuati dalla stagione degli amori nel Tirreno, venivano a cercare ristoro nelle acque tiepide dello Jonio.

Oramai passano a dieci, venti miglia dalla riva. Sono scomparsi. I contadini sono scomparsi dalla terra, che su, per tutte le vallate dell’Anapo, è diventata pietraia o sterpeto: e i pesci sono scomparsi dal mare. Nello scorso mese di luglio le acque della rada di Augusta assunsero improvvisamente un colore rossastro e, portati dalle correnti, emersero centinaia di migliaia di pesci morti.

Gli scienziati dettero un responso: le sostanze industriali scaricate in mare liberavano nell’acqua una quantità di sali che agivano da fertilizzanti per un determinato tipo di microalghe, provocando una autentica rivoluzione in quegli organismi viventi. Improvvisamente le cellule cominciavano a riprodursi con un ritmo demenziale, in proporzione geometrica. Le alghe crescevano, crescevano, diventavano gigantesche, consumavano tutto l’ossigeno dell’acqua marina sottraendolo a qualsiasi altro essere vivente nel mare, pesci, crostacei, molluschi, che morivano dunque asfissiati.

È come se, improvvisamente, sulla faccia della terra, un inquinamento atmosferico di sostanze chimiche non ancora definite, provocasse una crescita tumultuosa della flora, e le erbe dei prati diventassero alte cinque o sei metri, gli alberi immensi come palazzi, i campi di grano come foreste e persino i fiori come orribili piante carnivore, e questa vegetazione vorace divorasse continuamente tutto l’ossigeno dell’aria. asfissiando gli esseri umani e tutti gli altri animali viventi. Tutto quello che accade nel mare perché non potrebbe accadere sulla faccia della terra?

Intanto il mandriano di Tortorici, Sebastiano Calanna, risale con il suo armento le valli dell’Anapo alla ricerca di un filo d’erba e di un filo d’acqua per sopravvivere lui e le bestie. Dorme arrotolato in una coperta. Aprendo gli occhi nella notte vede un grande bagliore rosso per tutto il cielo oltre le montagne. Ma non è l’alba.

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