C’è chi ha piazzato le microspie in via Ughetti 17, a Palermo, nell’unico covo in cui si parla della strage e come d’incanto nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 1993 riesce a capire tutto di quanto è accaduto a Capaci quando sente Nino Gioè e Gioacchino La Barbera parlare dell’«attentatuni»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
C’è chi ha piazzato le microspie in via Ughetti 17, a Palermo, nell’unico covo in cui si parla della strage e come d’incanto nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 1993 riesce a capire tutto di quanto è accaduto a Capaci quando sente Nino Gioè e Gioacchino La Barbera parlare dell’«attentatuni».
C’è Gioacchino La Barbera, che ventitré anni dopo le stragi racconta che c’era un uomo misterioso nel commando di Capaci, un estraneo, un altro oltre a quello di cui ha parlato Gaspare Spatuzza a proposito della strage di via D’Amelio.
Ma poi La Barbera ritratta e si prende anche una querela dalla giornalista che lo ha intervistato.
C’è Paolo Bellini, infiltrato nelle cosche per conto dello Stato (ma quale Stato non si sa), che nell’agosto del 1992 aggancia Gioè, gli racconta dei tesori d’arte che stanno a cuore al Paese, gli propone un patto e poi torna nell’ombra.
Riemerge quando Gioè, il 29 luglio 1993, penzola da seduto nella sua cella, morto impiccato. E solo questo è sicuro.
C’è chi il 15 gennaio del 1993 cattura Totò Riina utilizzando le indicazioni di Balduccio Di Maggio, fuggito da Palermo, ricomparso a Borgomanero, finito in mano ai carabinieri del generale Delfino e subito disponibile a consegnare il capo dei capi.
C’è chi non perquisisce la residenza dorata di Totò Riina nella quiete di un residence di via Bernini e lascia che un fascio di appunti sgrammaticati tenga ancora in scacco il Paese. E chi di quella mancata perquisizione si accorge solo diciannove giorni dopo, crede all’equivoco e non apre subito un’indagine.
C’è Mario Mori, già capo del Ros, che è sotto processo a Palermo per la trattativa Stato-mafia [ndr. Assolto a termine del processo], accusato di rapporti con Licio Gelli e la P2 da un suo ex collega del Sid (Servizio informazioni difesa), il maggiore Mauro Venturi, che fu coinvolto nell’indagine sull’organizzazione segreta Rosa dei Venti ed è tra i comprimari della lotta intestina tra l’allora capo del Sid Vito Miceli, alla cui cordata era legato, e il generale Gianadelio Maletti, dal 1971 al 1979 capo del reparto D del Servizio, il controspionaggio del Sid.
C’è Giancarlo Amici, nome dell’agente segreto Mario Mori che negli anni Settanta aveva tra le fonti “Crocetta”, ovvero Gianfranco Ghiron, fratello di Giorgio poi diventato, guarda che coincidenza, avvocato di Vito Ciancimino.
C’è Gianadelio Maletti, che dalla latitanza in Sudafrica dice e non dice di un patto segreto tra Cosa Nostra e i nostri Servizi già negli anni Settanta, opera di un gruppetto nel quale c’era anche Mori che era in collegamento con l’ex sindaco Ciancimino. E c’è sempre Maletti a dire che il capo del centro Sid di Palermo, Umberto Bonaventura, era affiliato alla mafia.
C’è Gianmario Ferramonti, uomo vicino ai Servizi, militante leghista e componente del cda della finanziaria della Lega, che racconta di un pranzo avvenuto nel 1994 con l’allora capo della polizia Parisi per ottenere il suo assenso alla nomina di Roberto Maroni a ministro dell’Interno del primo governo Berlusconi. Il tramite era Enzo De Chiara, lobbista italo-americano autoaccreditatosi come uomo Cia, in contatto tanto con i Bush quanto con i Clinton e di certo amico di Parisi.
C’è il maresciallo Antonino Lombardo, che si toglie la vita nel 1995 nell’atrio del Comando regione carabinieri Sicilia e scrive in un messaggio che la chiave della sua delegittimazione sta nei suoi viaggi americani. Lombardo ha tenuto i rapporti con il boss di Cinisi Tano Badalamenti, pronto a parlare pur di tornare in Italia a scontare la condanna per traffico di droga che lo tiene negli Usa.
C’è Giovanni Tinebra, ex procuratore capo di Caltanissetta, procuratore generale a Catania, poi nominato dal governo regionale a forte pretesa antimafia di Rosario Crocetta alla guida dell’Ufficio regionale per l’espletamento di gare per l’appalto di lavori pubblici (Urega) di Catania.
Proprio quel Tinebra che si beve le verità del pentito Scarantino sulla strage di via D’Amelio, che passa al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) portandosi dietro il pm Salvatore Leopardi e nel 2004 instaura il protocollo Farfalla, che consente agli 007 di entrare in carcere a prendere quello che gli serve promettendo anche di pagare i boss per avere informazioni.
Ovvero istituzionalizzare ciò che era sempre stato, dandogli perfino il nome suggestivo di Farfalla, traduzione di Papillon, dal noto romanzo biografico sul carcere dell’Isola del Diavolo di Henri Charrière, detto appunto Papillon per via di una farfalla tatuata sul corpo.
C’è chi giura che il protocollo sia cessato nel 2007. E chi invece sostiene che sia durato più a lungo, diversificando gli scopi fino a costituire la copertura per una attività di spionaggio degli avvocati dei mammasantissima. Ha raccontato il collaboratore Vito Galatolo che durante la sua detenzione a Parma venne a conoscenza che c’erano state continue visite di 007 e militari del Ros per incontrare i boss al 41 bis.
I contatti sarebbero stati instaurati con i boss Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano e il catanese Enzo Aiello, ma anche con Nino Cinà, il medico che avrebbe fatto da tramite tra Ciancimino padre e il vertice corleonese durante la trattativa per far cessare le bombe, recapitando il famigerato papello con le condizioni di Riina per restaurare la pace. Un altro sarebbe Salvatore Rinella, sistemato nella stessa cella di Antonio Iovine, boss dei Casalesi, che dopo avrebbe maturato l’idea di collaborare con la giustizia.
Ha spiegato l’ex pm Alfonso Sabella, che è stato alla guida del servizio ispettivo del Dap: «A me non sconvolge tanto che si paghi un informatore perché dia le informazioni ai servizi segreti o alla polizia giudiziaria. Quello che mi sconvolge è il fatto che si agisca su delle possibili potenziali fonti di prova dell’autorità giudiziaria, inquinandole alla radice, e quando anni dopo o mesi o settimane questi boss hanno deciso di collaborare, probabilmente non erano più le stesse fonti di prova che potevano essere in passato, nel senso che le loro dichiarazioni potevano essere state inquinate, pilotate, indirizzate».
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