Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Politica significa impegno, responsabilità. La formazione e la selezione avvengono sul campo dell’azione, dove si misurano le capacità di promuovere e organizzare iniziative di massa e di dare a queste uno sbocco politico che permetta di raggiungere gli obiettivi dell’azione. Questa è la vera selezione nella formazione dei quadri di ogni organizzazione che si rispetti.

Fare politica è uno dei mestieri più belli del mondo, forse il più bello, perché si occupa della soluzione dei problemi delle persone.

Quante volte ho sentito ripetere questo concetto dalla bocca di mio padre. Fare politica, in un’organizzazione come il Pci, voleva dire dedicarsi ai problemi di chi non aveva o di chi aveva meno, in termini di risorse, diritti e prospettive. Fare politica, per una forza progressista, significa avere una visione più giusta e più equa della società. Questo ho imparato dall’esempio di mio padre.

Ho memoria delle sue campagne elettorali, a partire dalla metà degli anni Sessanta. Una volta eletto, non gli ho mai sentito dire: “mi sono sistemato” o “ci siamo sistemati”. In famiglia condividevamo la soddisfazione per lo sforzo che veniva premiato, per il riconoscimento che veniva dato al lavoro, innanzitutto del partito. Il plurale prevaleva sul singolare e l’interesse generale sul particolare. Certo, non nascondeva l’orgogliosa rivendicazione di aver contribuito all’esito positivo, per accompagnarla con una dichiarazione di rinnovato e più forte impegno dell’azione del partito, perché era quello il senso che lui dava al risultato elettorale.

Le sue campagne elettorali non erano a base di manifesti e volantini con la sua faccia. D’altronde, non era questo il modo.

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Famiglia paterna e materna erano entrambe fondamentali per mio padre.

Angela e Filippo La Torre, i miei nonni paterni, avevano messo al mondo cinque figli: tre maschi e due femmine. Filippo, il primogenito, che si chiamava come il nonno, seguito da Felicia, in mezzo mio padre, poi Antonina e, infine, Luigi. Filippo, a 17 anni, si era arruolato volontario ed era partito per la guerra e poco dopo era stato fatto prigioniero in Africa.

Rientrato in Italia, aveva sposato la zia Rosa, originaria di Vermicino, vicino Frascati, in provincia di Roma, ed erano andati a vivere a Portula, nel Vercellese, dove era stato segretario comunale di alcuni piccoli centri della provincia. Dal loro matrimonio è nata mia cugina Angela, archeologa, precaria negli anni Settanta, quando catalogava reperti nel Foro Romano, che ha rinunciato a quel lavoro per mettere su famiglia con Gianni: hanno una figlia, Giada, che si prepara a fare il magistrato.

Lo zio Filippo, una volta in pensione, aveva lasciato Portula e si era trasferito a Vermicino. Zio Filippo e zia Rosa sono morti, a breve distanza l’uno dall’altra, nel 2011. Da quando erano venuti a vivere vicino Roma, andavamo a trovarli spesso nei fine settimana. Zio Filippo aveva impiantato nel giardino di casa una piccola vigna e produceva vino e distillati, questi ultimi una specialità di zia Rosa. Il rito della passeggiata tra le viti era rispettato ogni volta, con i fratelli che commentavano lo stato delle piante e gli ultimi interventi che la cura costante della vigna richiedeva, come quello della degustazione delle grappe, aromatizzate da zia Rosa, alla fine del pranzo domenicale. Sul vino mio padre aveva qualche perplessità, confermata da noi figli, riassunta nel detto: il vino del contadino è genuino e, qualche volta, è anche buono.

Nel caso del vino di zio Filippo, ci si consolava con i distillati. Zia Felicia, un anno e mezzo più di mio padre, dopo la guerra aveva sposato zio Noè e subito dopo la nascita di Franco, all’inizio degli anni Cinquanta, era emigrata a Rochester, nello stato di New York, nord degli Stati Uniti, vicino alle cascate del Niagara, al confine col Canada. Zia Felicia ha fatto l’operaia in una fabbrica tessile e zio Noè prima il barbiere e poi il guardiano notturno in una scuola.

All’inizio degli anni Settanta, mio cugino Franco rischiava di essere arruolato nell’esercito statunitense per andare a combattere in Vietnam, questa fu la molla che spinse gli zii a vendere tutto e tornare a vivere in Italia. Il sogno che li aveva tenuti svegli negli anni dell’immigrazione. Giunti in Italia, si trovarono di fronte ad una realtà diversa da quella immaginata. Il titolo di studio di Franco non veniva riconosciuto dal nostro sistema educativo, a Palermo non riuscirono ad ambientarsi e anche a Vermicino non andò meglio. Troppe le differenze con la vita e le abitudini contratte negli Stati Uniti. Resistettero due anni e poi ritornarono a Rochester.

Papà andò a trovare sua sorella Felicia, in occasione di una missione ufficiale negli Stati Uniti della Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati, di cui era membro, e solo per questo era stato concesso un visto d’ingresso ad un comunista. Non so se fosse la prima volta che questo accadeva. Tra lui e la sorella c’era un rapporto speciale. Si scrivevano spesso e si capiva che si volevano molto bene. Zia Felicia era stata la sua maestra privata, durante le elementari.

Poi lei si era fermata lì mentre mio padre aveva proseguito gli studi. Sino a qualche anno fa, quando arrivava la primavera, veniva in Italia, insieme a zio Noè e Franco: tappe fisse Roma, Vermicino, Palermo e, se avanzava del tempo, Franco organizzava qualcos’altro. Adesso, le sue condizioni di salute non le permettono più di affrontare il viaggio. Per questa ragione, adesso tocca a noi andarla a trovare, come abbiamo fatto nel 2012, in occasione del suo compleanno, il 25 giugno. Sì, sono nato nel suo stesso giorno, trent’anni dopo.

La morte di suo fratello Pio ha aperto una ferita che non si è ancora rimarginata. Ogni volta che ne abbiamo parlato, perché era uscito un libro o era stato realizzato un documentario, non è riuscita a trattenere le lacrime. Non ha mai voluto vedere le immagini dell’agguato e di suo fratello ucciso.

Antonina, in famiglia la zia Nina, viveva al primo piano della casa paterna di Altarello di Baida e si faceva vedere raramente. Si è sposata, in età matura, con lo zio Nino ed è morta alcuni anni fa senza lasciare eredi.

Anche lo zio Luigi, l’ultimo nato, è restato a vivere nella casa paterna di Altarello, a pianterreno, dove, sposata la zia Ninetta, ha messo su famiglia e sono nati Filippo, Angelina, Paola e Gioacchino. Mio fratello ed io eravamo, rispettivamente, un anno più grandi di Filippo e Gioacchino. Nei fine settimana, quando papà non aveva impegni, andavamo spesso a pranzo o a cena da loro.

Per mio padre, quelle erano le occasioni per passeggiare in giardino, passando per la gebbia, come in palermitano viene chiamata la cisterna di cemento, sempre piena d’acqua, utilizzata per annaffiare i giardini, dove aveva imparato a nuotare, attento a non affogare, sino a una grande spianata, circondata da agrumeti, chiamata piazza d’armi.

Faceva lunghe chiacchierate con suo fratello, gli chiedeva delle arance o delle nespole, in base alla stagione, quasi pronte per essere raccolte, o del parassita che aveva colpito alcune piante, prima di essere debellato, e si faceva aggiornare sulle novità della borgata. Filippo, Gioacchino, mio fratello ed io li seguivamo; a noi piaceva giocare a pallone nella cosiddetta piazza d’armi, dove si ritrovavano i ragazzi della zona.

Un’estate della prima metà degli anni Sessanta, ho passato diversi giorni ad Altarello e, in quell’occasione, Angelina e Paola mi hanno insegnato a ballare polka, mazurka e walzer. Zia Felicia era negli Usa e zia Nina non c’era quasi mai. Questo non diminuiva il suo attaccamento alla casa dov’era nato e dove tornava appena poteva. Negli anni in cui abitava a Roma, quando andava a Palermo il suo domicilio era ad Altarello: era troppo legato a quegli odori, che ricercava, ogni volta, col piacere di rinnovarne il ricordo. Passeggiare per quei luoghi aveva un effetto rilassante, nutriva la mente e rinnovava le forze.

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