Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per un mese pubblichiamo ampi stralci della “Relazione sul Caso Impastato”, elaborata dal Comitato della Commissione Parlamentare Antimafia della XIII° Legislatura, sull’uccisione di Peppino Impastato


Ma se la Procura della Repubblica di Palermo resta inerte nonostante le dichiarazioni, gli esposti, gli interrogativi che doveva suscitare un esame sereno di quello strano caso, ben diverso fu l’atteggiamento degli amici e dei familiari di Impastato, che continuarono nella opera di denuncia e nell’attività di ricerca di tracce obiettive del delitto di mafia.

A fronte delle resistenze dei carabinieri della Stazione di Cinisi, la scelta da parte degli amici di Impastato, di rivolgersi al prof. Ideale Del Carpio, cattedratico di grande autorevolezza morale e professionale, quale tramite con le istituzioni, si rivelò efficace. Il professore infatti avverte l’Ufficio di Procura nella persona del dott. Francesco Scozzari di quanto quei giovani avevano rinvenuto sul luogo del fatto sicché, in data 13 maggio 1978 si procedette a nuovo sopralluogo da parte dello stesso Scozzari, assistito dal magg. Subranni, dal cap. E. Basile e dal mar. Travali, alla presenza dei periti prof. Caruso e Procaccianti, oltreché dello stesso Del Carpio, consulente di parte, e di Pietro La Fata e Vito Lo Duca, cioè dei giovani che avevano trovato i reperti utili alle indagini.

L’atto giudiziario si rivelò di straordinaria importanza perché all’interno del casolare furono trovate macchie di sangue sia su pietre infisse nel pavimento, sia in prossimità della spigolo di un sedile in pietra, il tutto adeguatamente fotografato. I risultati della iniziativa degli amici di Peppino costituivano, com’è a tutti evidente, un dato obiettivo che contrastava e poteva azzerare la costruzione investigativa fondata sul binomio attentato-suicidio.

Il dato fu però svilito, nell’analisi dei Carabinieri, con la considerazione che poiché la casa era abbandonata, poteva trattarsi di sangue di origine diversa (mestruale o di animali o altro). Ma quel che mette conto qui di osservare è che l’atteggiamento della magistratura inquirente non mutò, neanche a seguito di questa decisiva emergenza investigativa, peraltro direttamente verificata.

L’eccezionalità dei risultati del sopralluogo venne completamente ignorata dal magistrato inquirente. Egli si limitò a mettere a disposizione dei periti il materiale ematico e a chiedere loro la ricostruzione della dinamica della morte e la posizione di Impastato all’atto dell’esplosione oltre agli accertamenti di rito sull’esplosivo adoperato, senza attivare la polizia giudiziaria sulle ipotesi, indicate da quei giovani e dal prof. Del Carpio e, soprattutto, avvalorate dal ritrovamento delle importantissime tracce del delitto nel casolare.

Il rapporto del Reparto Operativo dei Carabinieri in data 30 maggio 1978, presentato a seguito della delega di indagine conferita dal dott. Signorino relativamente all’esposto presentato dagli amici Impastato, sembra invece voler costituire una vera e propria colata di cemento su ogni diversa lettura del fatto.

A seguito della delega non vi furono indagini positivamente indirizzate sugli ambienti e sui fatti indicati nell’esposto: il maggiore Subranni, infatti, si limita ad ascoltare i firmatari dell’esposto e il professor Del Carpio.

Invece di indagare le persone e i fatti segnalati dall’esposto, cioè la mafia di Cinisi e quindi Badalamenti e il suo gruppo, sono le dichiarazioni dei firmatari dell’esposto e lo stesso prof. Del Carpio ad essere oggetto di attenta verifica.

Sul punto va osservato che i Carabinieri del reparto operativo, senza delega specifica procedettero ad un atto, l’esame del consulente di parte della famiglia Impastato già formalmente costituito in tale qualità negli atti giudiziari compiuti dal sostituto Scozzari e già ascoltato nel corso del procedimento dal Pubblico Ministero titolare della istruttoria sommaria, che lo stesso dott. Martorana, nel corso della sua audizione ha definito «uno straripamento».

L’esame del prof. del Carpio, censurabile anche sul piano formale, condotto con veemente pressione inquisitoria, degna di miglior causa, si concentrava sul fatto che egli avesse formulato le sue valutazioni tecniche sulla scorta di quanto descrittogli (in modo assolutamente fedele dai giovani studenti) piuttosto che a seguito di esame diretto dei luoghi.

La circostanza, evidentemente non minava la fondatezza delle osservazioni e delle valutazioni dell’illustre cattedratico ma la ingiustificata insistenza su di essa determinava una condizione psicologica difensiva, assolutamente ingiustificabile per un uomo di grande spessore morale e professionale, lealmente e intervenuto a dare un disinteressato contributo di scienza alle indagini.

L’impegno fu rivolto alla sua persona e alla sua condotta, piuttosto che alle cose che diceva, ai fatti di cui dava prova, alla ipotesi dell’omicidio di mafia che doveva cogliersi dalle sue dichiarazioni.

Neppure le dichiarazioni dei compagni e dei familiari di Peppino, sentiti dal dott. Signorino dettero al magistrato inquirente l’impulso indagini nella direzione della mafia di Cinisi posto che si trattò di atti compiuti senza alcuno spunto significativo di un interesse per ipotesi diverse da quelle legate al binomio suicidio-attentato, senza alcuna conseguente iniziativa investigativa,quasi con nell’adempimento burocratico del dovere di dare veste giudiziaria agli compiuti dai Carabinieri.

L’istruttoria sommaria condotta dal sostituto procuratore dunque non vuole allontanarsi dal tracciato dei carabinieri, nonostante i dati obiettivi delle indagini richiedessero iniziative verso le persone e gli ambienti che erano stati oggetto di denuncia da parte di Peppino Impastato.

Potevano e dovevano adottarsi provvedimenti di prassi quali quelli di perquisizione o, all’esito di queste e ricorrendo i presupposti, richiedersi intercettazione delle conversazioni telefoniche, oppure pro- cedere agli accertamenti sui titolari delle cave che avevano la disponibilità di quell’esplosivo (che erano poi le stesse persone che gravitavano nell’ambiente di mafia protagonista delle speculazioni edilizie contrastate pubblicamente e con forza da Peppino Impastato).

Niente di tutto questo accade nell’istruzione sommaria del dott. Domenico Signorino.

Il tempo scorre in attesa delle relazioni dei periti senza che il Pubblico Ministero adotti alcuna iniziativa, fermo com’era, evidentemente, alla ipotesi dell’attentato-suicidio.

Passano così sei mesi, un tempo prezioso per acquisire decisivi elementi di prova di un delitto di omicidio.

Quando interviene, il risultato degli accertamenti peritali confermerà che le macchie trovate sul sedile di pietra all’interno del casolare erano di sangue umano, dello stesso gruppo del sangue di Giuseppe Impastato, così come sarà confermato che l’esplosivo era costituito da mina da cava. Questi risultati, stando alle carte processuali, impongono al sostituto procuratore Domenico Signorino a modificare l’impostazione del processo e ad ipotizzare, finalmente, a carico di ignoti, il delitto di omicidio premeditato.

Ma i risultati delle perizie non erano novità assolute per l’indagine.

Nel frattempo erano comunque trascorsi mesi e mesi dal fatto.

Le relazioni peritali, infatti, hanno solo convalidato gli elementi emersi nella immediatezza dei fatti.

Quegli elementi erano già stati fortemente – e anche formalmente – evidenziati agli investigatori e ai magistrati: le tracce di sangue all’interno del casolare, l’uso della mina da cava, l’esistenza di validi e noti motivi a sostegno della causale mafiosa erano dati disponibili per il magistrato già la mattina del 9 maggio 1978.

Nel novembre del 1978, senza che nel corso della sommaria istruzione fosse stato compiuto alcun atto mirato alla verifica della pista dell’omicidio, il Sostituto Signorino «formalizza» l’accusa di omicidio premeditato a carico di ignoti e affida il processo al giudice istruttore Rocco Chinnici.

Solo con l’arrivo nel processo di questo Giudice si cominciò a lavorare seriamente su quella che fin dal primo momento poteva e doveva essere utilmente verificata: la pista dell’omicidio di mafia.

L’esame delle attività sviluppate da questo giudice, il ventaglio degli accertamenti disposti per sviluppare gli originari elementi di prova contro la mafia di Cinisi, costituisce la conferma più autorevole e genuina della fondatezza delle osservazioni formulate da questa Commissione alla conduzione degli accertamenti seguiti alla morte di Giuseppe Impastato.

Si è cercato, in questa sede, di proporre una ricostruzione ancorata ai fatti di allora, una valutazione operata dalla medesima angolazione processuale di chi aveva il potere e il dovere di guardare e vedere gli indizi obiettivamente emersi nella direzione mafiosa, per svilupparli tempestivamente nei modi e con tutti gli strumenti propri della investigazione penale.

Con la formalizzazione della inchiesta da parte del Pubblico Ministero Signorino, viene dunque segnata in modo definitivo la strada dell’ipotesi mafiosa. Questo rendeva naturalmente proficuo il rapporto tra l'autorità giudiziaria, nella specie il giudice Rocco Chinnici, e coloro i quali sempre avevano affermato che la chiave del delitto fosse, appunto, quella mafiosa.

I familiari e gli amici di Giuseppe Impastato intervengono con tempestività ed efficacia sulla scena processuale presentando nel novembre 1978 il «Promemoria all’attenzione del giudice Chinnici» e il Documento della redazione di Radio Aut e del Comitato di controinformazione costituitosi presso il centro siciliano di documentazione, mentre la madre Bartolotta Fara e il fratello Giovanni si costituiscono parte civile.

Il «promemoria» offre una serie di suggerimenti investigativi che furono in gran parte espletati dal giudice istruttore, mentre altri, pure molto importanti, risultavano purtroppo superati o impossibili da eseguirsi per il lungo tempo trascorso (così per esempio il controllo delle cave di D’Anna o gli accertamenti sulle «strane effrazioni» nelle case dei familiari e degli amici di Peppino).

Ma, soprattutto, venuta meno la diffidenza verso gli amici e i familiari di Impastato, vengono offerte al giudice istruttore informazioni su circostanze inedite, prima fra tutte quella concernente l’avviso dato da Amenta Giuseppe al cugino Giovanni Riccobono, compagno di militanza di Peppino, a non recarsi a Cinisi, quella sera, perché sarebbe accaduto qualcosa di grave.

Le dichiarazioni rese a questa Commissione da Giovanni Riccobono, nel corso della missione del Comitato a Palermo del 31 marzo 2000 meritano di essere riportate perché espressione di coraggio civile e di capacità di rottura di un clima omertoso fondato anche sul ricatto degli affetti familiari. Quando il processo approda dinanzi al giudice Chinnici, il giovane Riccobono rompe gli schemi, denuncia un fatto di particolare importanza ai fini delle indagini e lo conferma, poi, anche in sede di confronto con il cugino Amenta, dinanzi al giudice istruttore. [...]

Rocco Chinnici pose al centro del suo lavoro istruttorio gli interessi mafiosi denunciati da Giuseppe Impastato e indagò con rigore e serietà professionale in quella direzione. Partendo dall’esame approfondito dei numerosi testimoni dell’ultimo periodo e delle ultime ore di vita di Impastato, Chinnici acquisì e approfondì i risultati della inchiesta della Direzione Compartimentale delle Ferrovie dello Stato, dispose il sequestro delle pratiche edilizie relativa al famoso palazzo nel centro di Cinisi e al camping Z 10, con conseguenti perizie tecniche ed invio di comunicazione giudiziaria per interesse privato in atti di ufficio al sindaco, al vice sindaco e alla commissione edilizia di Cinisi.

Si registrarono, in quella istruttoria, gli arresti per falsa testimonianza dei fratelli Amenta e la comunicazione giudiziaria per l’omicidio di Giuseppe Impastato, inviata a quel Finazzo Giuseppe, poi ucciso nella guerra di mafia, proprietario del palazzo abusivo denunciato da Peppino. Queste coordinate di indagine, sviluppate con rigore professionale dal dottor Chinnici, delineano il quadro entro cui poteva emergere la prova della personale responsabilità penale di mandanti ed esecutori dell’omicidio di Impastato.

Rocco Chinnici muore il 29 luglio 1983 per mano della mafia e il fascicolo processuale passa quindi al Consigliere istruttore Antonino Caponnetto.

Senza ulteriori significativi atti istruttori il pubblico ministero dott. Domenico Signorino rassegna le proprie conclusioni in data 7 febbraio e 2 marzo 1984, richiedendo il non doversi procedere per falsa testimonianza nei confronti dei fratelli Amenta, per intervenuta amnistia e, quanto all’omicidio premeditato in danno di Giuseppe Impastato, per essere rimasti ignoti gli autori del reato.

L’atto conclusivo della prima fase di questa tormentata storia processuale, si ha con la sentenza istruttoria del dott. Antonino Caponnetto in data 19 maggio 1984. Essa stigmatizza la valutazione compiuta dal Pubblico Ministero dott. Domenico Signorino nella sua requisitoria finale, laddove afferma che le originarie indagini furono «dubbiose» in ordine alla qualificazione della morte di Impastato. Il giudice istruttore, infatti, è categorico nell’affermare che quelle indagini «furono decisamente e convintamente orientate verso l’ipotesi suicida».

La responsabilità del depistaggio delle indagini viene tuttavia ricondotta dal dott. Caponnetto esclusivamente al ritrovamento del manoscritto e al «.... senso di sfiducia che indusse amici, compagni e parenti del giovane a rivelare in un momento successivo e soltanto al giudice istruttore circostanze di indubbia rilevanza al fine di accertare modalità e causa del tragico episodio».

La sentenza descrive in modo rigoroso e approfondito le ragioni fondanti della ipotesi omicidiaria e dimostra l’insussistenza delle altre e, in specie, la inconsistenza reale degli indizi militanti per la soluzione terroristico – suicidiaria. In particolare, essa ha il merito fondamentale di avere motivatamente ricondotto all’alveo mafioso l’origine del delitto di Giuseppe Impastato e di avere, quindi individuato la causale del delitto nella sua battaglia contro la mafia e i mafiosi di Cinisi.

La sentenza ebbe le critiche da parte degli amici e dei familiari di Impastato, soprattutto perché sembrava rendere più difficile la possibilità di pervenire all’accertamento delle responsabilità personali degli autori e dei mandanti, nel momento meno opportuno.

Proprio in quel periodo, infatti, Gaetano Badalamenti, principale sospettato mandante dell’omicidio veniva arrestato in Spagna, perché colpito da mandato di cattura per traffico internazionale di stupefacenti in relazione alla cosiddetta operazione Pizza connection.

[…] Anche la successiva parentesi della tormentata storia processuale, cioè la riapertura delle indagini disposta dalla Procura di Palermo è avviata, su sollecitazione degli amici e dei familiari di Impastato. Nel giugno del 1986, infatti, Umberto Santino, Salvo Vitale, Nuccio Gaspare e Giovanni Impastato, chiedono formalmente la riapertura del procedimento con una motivata richiesta che, muovendo dai risultati della sentenza Caponnetto, secondo cui la morte di Peppino era stata decisa da quegli stessi gruppi e personaggi mafiosi contro cui aveva concentrato il suo impegno di lotta, introduce un elemento nuovo di conoscenza che si rivelerà significativo per la comprensione delle dinamiche decisionali tra le cosche mafiose.

Con quella richiesta, infatti, vengono evidenziati, accanto ai motivi delle battaglie di Peppino, come ad esempio il famoso volantino in cui attacca Badalamenti definendolo esperto di lupara e di eroina, nuovi fatti specifici, tra i quali la visita a casa Impastato del mafioso Vito Palazzolo che convoca Luigi Impastato, padre di Peppino, presso Gaetano Badalamenti, e, quindi, l’improvviso viaggio di Luigi in America, per località e ragioni taciute ai familiari, alla ricerca di protezione per il figlio presso le cosche mafiose siciliane in America (...prima che uccidono lui devono uccidere me ...disse alla cugina Vincenza Bartolotta, a Los Angeles) e, infine, al ritorno dall’America, l’incontro di Luigi Impastato nella casa del fratello di Gaetano Badalamenti.

Gli elementi illustrati dai familiari dettero luogo ad un’indagine, condotta dal Pubblico Ministero Ignazio De Francisci e dal giudice istruttore Giovanni Falcone, che tuttavia non poté pervenire a concreti risultati perché, scontata la posizione negatoria, di Gaetano Badalamenti, non ebbe dai parenti americani di Luigi Impastato alcun significativo contributo.

E peraltro, il Pubblico Ministero, nella richiesta di archiviazione del 27 febbraio 1992, affaccia il sospetto che ad uccidere Impastato fosse stata la frangia mafiosa dei «corleonesi», ricordando che Lipari Giuseppe, comproprietario di quel villaggio turistico Z10 contro la cui realizzazione si era strenuamente battuto Peppino, era ritenuto vicinissimo a Riina Salvatore.

Quest’ipotesi era basata sulle dichiarazioni di Buscetta, secondo il quale Badalamenti era stato «posato», cioè estromesso, dalla «commissione» tra la fine del 1977 l’inizio del 1978, sicché la sua posizione di predominio sulla zona di Cinisi era «quanto mai precaria» per il netto contrasto con il gruppo cosiddetta dei «Corleonesi», che di lì a poco avrebbe dato luogo alla guerra di mafia che ha insanguinato Palermo per tutti i primi anni ottanta.

Nel corso di questa indagine viene esclusa la cosiddetta «pista nera», indicata da Angelo Izzo, noto personaggio della destra extra parlamentare. Questi, nel processo per l’omicidio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, aveva riferito, de relato, di un coinvolgimento quali esecutori materiali del delitto Impastato di elementi della destra extra parlamentare.

Ma da un lato le indagini non avevano consentito di acquisire riscontri e, dall’altro, lo stesso Concutelli non confermava di aver fornito ad Izzo quelle informazioni. La richiesta del Pubblico Ministero viene integralmente accolta dal Giudice per le indagini preliminari, che archivia nuovamente il caso.

Anche l’epilogo negativo delle ulteriori indagini viene apertamente criticato dai compagni e dai familiari di Giuseppe, anche sul rilievo che, al di là delle dichiarazioni di Buscetta, la presenza e l’attività in Cinisi di Gaetano Badalamenti «esperto in lupara e traffico di eroina» era stata rilevata e denunciata da Peppino Impastato, proprio nel periodo dell’omicidio.

Dinanzi al Comitato di questa Commissione, per la prima volta, Giovanni Impastato, sua moglie Vitale Felicia e la madre di Peppino, Bartolotta Felicia, hanno potuto compiutamente riferire alcuni essenziali passaggi, di grande rilievo probatorio, non ancora adeguatamente evidenziati nella sede processuale propria:

Figurelli. Lei non sapeva niente di quello che era successo quando arrivarono i carabinieri per perquisirle la casa?

Bartolotta. Non mi dissero niente, ma lo immaginavo. Chiesi loro che cosa fosse successo e mi risposero che si trattava solo di fatti di ragazzi. Io avevo immaginato, perché vi erano state delle minacce forti.

Russo Spena Coordinatore. Vorrei sapere chi fece le minacce forti.

Bartolotta. Badalamenti, il quale chiamò mio marito e gli disse che gli avrebbe ammazzato suo figlio.

Micciché. A lei risulta questo perché glielo raccontò suo marito?

Bartolotta. Sì. Mio marito gli disse che non gli dovevano toccare il figlio.

Impastato. Dobbiamo parlare chiaro. Mio padre era un mafioso ed era un amico di Badalamenti, il quale molte volte veniva a casa nostra a chiamarlo. Sicuramente avranno avuto un dialogo in questo senso perché, nell’ultimo periodo, tramite «Radio Aut» o attraverso i volantini, Peppino aveva alzato il tiro nei confronti della mafia di Cinisi e, in particolare, contro Badalamenti. Sicuramente Badalamenti chiamò più volte mio padre per dirgli di far smettere Peppino, altrimenti sarebbe finito male.

Russo Spena Coordinatore. Chi lo veniva a chiamare?

Impastato. Palazzolo.

Vitale. Dopo uno degli ultimi volantini fatti da Peppino durante la campagna elettorale, assistemmo al solito rito. Eravamo a cena e in quell’occasione era presente anche Peppino. Ho detto che c’era anche Peppino perché egli aveva dei periodi di alti e bassi con suo padre e spesso non stava a casa. Suonarono alla porta e andai io ad aprire: si trattava di Vito Palazzolo, detto «varvazzetta», imputato nel processo e indicato come il mandante del delitto. Mi chiese di far uscire mio suocero da casa. Chiamai mio suocero, il quale uscì da casa e parlò con lui per un po’ di tempo. Quando rientrò, si scatenò l’ira di Dio. Mio suocero se la prese con Peppino, dicendogli che doveva smettere la sua attività, che voleva rovinare entrambi e che non ce la faceva più.

Micciché. Emergeva chiaramente che Palazzolo avesse fatto qualche minaccia precisa a Luigi del tipo: «Se tuo figlio non la smette noi ammazziamo lui o te»?

Vitale. È una delle ultime minacce fatte a mio suocero. Questo fatto è avvenuto subito dopo il volantino, eravamo in campagna elettorale.

Micciché. Si parlò espressamente di pericolo di vita per qualcuno? Quando lei afferma che è successo il finimondo, al di là dell’arrabbiatura del suocero, del momento particolare della minaccia ricevuta, suo suocero disse qualcosa di preciso che potrebbe essere utile a questa Commissione nel senso: « Mi hanno detto che se non la finisci ti ammazzano»?

Bartolotta. A casa non parlava mai di queste cose.

Vitale. È chiaro che il problema era quello.

Impastato. Il viaggio compiuto da mio padre era importante anche a seguito di questi fatti che sono successi.

Russo Spena Coordinatore. Oltre a Palazzolo c’erano altri che minacciavano?

Impastato. Erano state fatte anche dallo zio Giuseppe Impastato detto «sputafuoco».

Russo Spena Coordinatore. Quello del volantino è un punto da approfondire.

Figurelli. Questo «sputafuoco» è stato interrogato dai carabinieri?

Impastato. Per quanto riguarda queste vicende non è stato interrogato dai carabinieri, ma può darsi che mi sbagli.

Russo Spena Coordinatore. Siccome c’è un problema che riguarda un palazzo appartenente a Finazzo, di cui è stata bloccata la costruzione in seguito alle denunce di Radio Aut, c’era un punto specifico su cui avveniva l’avvertimento? C’era un punto nel volantino che aveva particolarmente colpito la mafia locale nei suoi interessi?

Impastato. Per quanto riguarda il famoso progetto Zeta 10, un progetto turistico a Cinisi, Peppino lo aveva denunciato politicamente ed era stata bloccata una sovvenzione della Cassa per il Mezzogiorno. Questo progetto Zeta 10 è di Giuseppe Lipari che è nel maxi–processo. I proprietari erano tre: Caldara, Cusumano e Lipari; uno di questi tre aveva rapporti con la mafia di Corleone, con Totò Riina ed è indagato nel maxi–processo.

Il contenuto del volantino parlava di questo progetto Zeta 10, del palazzo a cinque piani e accusava direttamente Tano Badalamenti di essere esperto in lupara e traffico d’eroina. In quel volantino si denunciavano i rapporti tra le istituzioni (comune, amministrazione comunale) e la mafia. Si denunciava l’amministrazione locale che concedeva molto alla mafia in base a quei progetti. C’è una serie di fotografie che parla chiaro, si tratta di foto diventate famose: l’autostrada, la famosa curva, perché c’erano i terreni dei Di Trapani.

Il progetto Zeta 10, il palazzo a cinque piani, tutto il saccheggiamento della costa, su queste cose Peppino colpiva nel segno. Poi, nell’ultimo periodo si era candidato alle elezioni comunali, quindi diventava molto pericolosa la sua presenza in consiglio comunale nelle liste di Democrazia proletaria

Micciché. Quelli che suo zio riferiva a suo padre erano minacce o consigli a sua volta ricevuti da Badalamenti?

Impastato. In precedenza ho assistito a qualcosa, ma molti anni prima. L’impegno di Peppino è durato dieci anni, sempre contro Badalamenti, e faceva attacchi concreti con nomi e cognomi. Questo «sputafuoco» veniva a casa con minacce precise del tipo: «Cerca di far smettere tuo figlio, fagli fare politica, può fare il comunista, quello che vuole, ma che non parli dei mafiosi, ci sono tanti argomenti di cui trattare, perché deve parlare proprio di mafia?».

Micciché. Le risulta che questo suo zio avesse parlato direttamente con Peppino?

Impastato. Con mio fratello no, perché non lo salutava, ma con mio padre si, che poi buttava Peppino fuori di casa, lo contrastava in questo suo impegno. Poi, man mano che passava il tempo, il tiro si alzava sempre di più.

Russo Spena Coordinatore. È necessario individuare l’ultimo messaggio pervenuto alla famiglia Impastato da parte di persone vicine a Badalamenti.

Impastato. L’ultimo è stato quello di Palazzolo.

Bartolotta. Vito Palazzolo e suo cugino una mattina, arrivati in macchina, bussano alla porta. Mi chiedono se c’è mio marito e io risposi di no, ma se avevano un appuntamento mio marito sarebbe arrivato. Mi disse che suo cugino voleva parlargli. Quando arrivò mio marito lo avvertii e lui comprò perfino un regalo per la figlia di Palazzolo. Questo è l’ultimo avvertimento, due o tre mesi prima.

Micciché. È arrivata qualche minaccia negli ultimi giorni prima che Peppino morisse? Quando Vito Palazzolo ha bussato alla porta e ha chiesto di incontrare il padre di Peppino?

Vitale. Mio suocero era ancora vivo.

Impastato. Questo è successo prima della morte di Peppino ma dopo il volantino che era stato redatto un anno prima.

Russo Spena Coordinatore. Il discorso del viaggio in America merita una trattazione organica separata. Gli auditi hanno osservato che Badalamenti aveva avuto colloqui con il padre di Peppino preceduti da visite di persone che lo convocavano presso Badalamenti stesso. Chi erano le altre persone e dove veniva convocato suo padre?

Impastato. Uno era Palazzolo, un altro Giuseppe Impastato detto «sputafuoco», un altro ancora un cugino di Gaetano Badalamenti, Vito Badalamenti. Gli incontri avvenivano anche a casa di Badalamenti, a Cinisi, a pochi metri da casa mia.

Micciché. Lei ritiene che finché suo marito era vivo in qualche maniera questi minacciavano ma non facevano niente, ma appena suo marito è morto si sono ritenuti liberi di ammazzare suo figlio?

Bartolotta. Finché era vivo sì.

Micciché. Quindi lei ritiene che la morte di suo marito sia stata determinante perché tolse ai suoi figli l’unico legame di protezione di cui godevano. In pratica, se l’avessero ucciso con il padre ancora in vita, gli stessi assassini avrebbero rischiato una ritorsione.

Bartolotta. Mio marito chiedeva a mio figlio di smettere e lui rispondeva che se lo avessero ammazzato si sarebbero resi colpevoli. Lui sapeva di correre certi rischi perché gli erano già arrivate delle minacce, ma diceva: “Se mi ammazzano confessano la loro colpa”. Fu Badalamenti a far ammazzare mio figlio.

Impastato. Il fatto importante è che quando mio padre torna dagli Stati Uniti muore in un incidente stradale. E questo accade circa otto mesi prima della morte di Peppino.

Figurelli. Per quale ragione allora si recò negli Stati Uniti?

Impastato. Proprio perché c’era qualcosa che non andava. Dopo essere stato chiamato da Badalamenti tramite Palazzolo e dopo aver parlato con alcuni suoi amici mafiosi decise improvvisamente di partire per gli Stati Uniti. A noi diede una motivazione assurda. Ci disse che dal momento che Peppino attaccava i suoi amici e «faceva casino» sarebbe andato negli Stati Uniti per avere un po’ di tranquillità. Probabilmente, invece, andò in America per incontrare alcune persone e convincerle a parlare a Badalamenti. Questa è una mia ipotesi.

Russo Spena Coordinatore. Probabilmente si trattava di superiori gerarchici nell’ambito dell’organizzazione mafiosa ai quali suo padre chiedeva di convincere Badalamenti a non minacciare suo figlio.

Impastato. Qualcosa in questo senso è accaduto. Infatti, nell’interrogatorio di una mia cugina, Bartolotta Vincenza, risulta che lei lo abbia in qualche modo provocato dicendogli che probabilmente si era recato negli Stati Uniti perché stava accadendo qualcosa a Peppino. Egli negò fermamente e aggiunse che se avessero voluto fare del male a Peppino prima avrebbero dovuto ammazzare lui.

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