Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 presieduta da Tina Anselmi


Accanto alla figura di Licio Gelli, un altro elemento di spicco nell'analisi di questa vicenda è costituito dal generale Vito Miceli, Direttore del SID dal 1970 al 1974. In proposito quello che a noi interessa è rilevare come sia accertata l'esistenza di contatti tra il generale Aliceli, allora nella sua veste di capo del SIOS, Orlandini e Borghese, contatti da far risalire al 1969.

Tali eventi si accompagnano significativamente alla sua nomina al vertice dei Servizi, che il Gelli si vantò, come sappiamo, di aver favorito e che precede di poco il tentativo insurrezionale guidato dal principe nero. Contatti aveva altresì il generale Miceli con Lino Salvini, al quale aveva consentito di mettersi in contatto con lui sotto lo pseudonimo di « dottor Firenze ».

Questi dati, unitariamente considerati, vanno letti in parallelo con la successiva inerzia del generale nei confronti delle indagini sul Fronte Nazionale, condotte dal Reparto D guidato dal generale Maletti. Con questi il Miceli entrò poi in contrasto, avendo richiesto lo scioglimento del nucleo operativo facente capo al capitano La Bruna; e va a tal proposito sottolineata la svalutazione che il direttore del SID faceva dei risultati investigativi raggiunti sul golpe, come non mancò di esternare all'onorevole Andreotti e all'ammiraglio Henke.

Gli elementi conoscitivi indicati, che non esauriscono di certo una situazione oggetto di una contrastata vicenda giudiziaria, debbono essere a questo punto del discorso inquadrati nell'ambito delle considerazioni alle quali siamo pervenuti analizzando il rapporto tra Gelli ed i Servizi segreti.

Il dato relativo all'appartenenza di Licio Gelli a quegli ambienti va considerato alla luce delle successive attività che vedono il Venerabile impegnato a venire in soccorso degli imputati, svolgendo un'azione che si muove significativamente in perfetta sintonia con la documentata inerzia del Direttore del SID. Il minimo che si possa dire è che questi non sembra aver seguito con particolare accanimento le indagini sul Fronte Nazionale, pur avendo avuto contatti diretti con i suoi massimi dirigenti.

Contatti che peraltro egli aveva giustificato proprio con la necessità di acquisire informazioni, nella sua veste di dirigente di apparati informativi. È del pari in tale prospettiva che vanno valutate sia le diffuse convinzioni maturate nell'ambiente golpista sul ruolo di Licio Gelli, quale cerniera di raccordo con gli ambienti militari che il risentimento maturato per il fallimento dell'operazione.

Come si vede, anche muovendo da questa situazione l'analisi ci conduce alla figura di Licio Gelli, al suo ruolo di elemento intrinseco ai Servizi, come del resto riteneva il De Felice, ma soprattutto alla individuazione della Loggia P2 come struttura nella quale ed attraverso la quale si intrecciano rapporti e si stabiliscono collegamenti la cui ortodossia lascia ampi margini di dubbio, anche accedendo alla più benevola delle valutazioni.

Elementi di estremo interesse ai nostri fini emergono poi dalla inchiesta condotta dal giudice Tamburino di Padova sul movimento denominato « Rosa dei Venti », nel quale troviamo la presenza di uomini iscritti al «Raggruppamento Gelli», secondo quanto affermato dall'ispettore Santillo nelle sue note informative. Venivano in tali documenti considerati come appartenenti all'organizzazione gelliana il generale Ricci, Alberto Ambesi e Francesco Donini.

L'inchiesta sulla «Rosa dei Venti» si segnala peraltro alla nostra attenzione per due testimonianze raccolte dal giudice patavino che rivestono per noi un sicuro interesse se poste in relazione ad altri elementi conoscitivi emersi nel corso del nostro lavoro. Va ricordato in primo luogo che il giornalista Giorgio Zicari ha testimoniato di aver collaborato con l'Arma dei carabinieri e con i Servizi segreti, entrando in contatto nel 1970 con Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando, elementi di spicco del gruppo dei MAR, ed ottenendo da costoro informazioni per i detti apparati investigativi. Quando nel 1974 lo Zicari venne riservatamente convocato dal giudice Tamburino, gli accadde di ricevere nel giro di poche ore l'invito ad un colloquio con il generale Palumbo nel corso del quale l'alto ufficiale ebbe ad esprimersi nei seguenti termini: « ... il tema centrale fu che io non dovevo parlare, che poteva succedermi qualcosa, dei fastidi, che io avevo tutto da perdere dalla vicenda, che i magistrati stavano tentando di sostituirsi allo Stato riempendo un vuoto di potere, che non si sapeva che cosa il giudice Tamburino volesse cercare, che non ero obbligato a testimoniare... ».

Questa iniziativa del generale Palumbo viene a collocarsi in modo preciso a sostegno della già ricordata osservazione del generale Dalla Chiesa sulla collaborazione non particolarmente motivata degli ambienti della divisione Pastrengo nell'azione che il generale conduceva contro il terrorismo.

Va altresì rilevato che l'atteggiamento del generale Palumbo riporta alla nostra attenzione il tipo di risposta che l'ammiraglio Casardi, Direttore del SID, forniva ai giudici che indagavano sulla strage dell'Italicus quando si rivolsero al Servizio per ottenere notizie su Licio Gelli, ottenendo un rinvio alle notizie apparse sulla stampa. Sempre nel corso del 1974 il giudice Tamburino raccolse alcuni riferimenti testimoniali sul cosiddetto «SID parallelo», il cui procedimento si chiuse infine con la richiesta di archiviazione formulata dal Procuratore della Repubblica di Roma, accolta dal giudice istruttore in data 22 febbraio 1980.

E di particolare interesse nel contesto di tali deposizioni quanto ebbe a dichiarare il generale Siro Rosseti, uscito nel 1974 dalla Loggia P2 in posizione polemica nei confronti di Licio Gelli. L'alto ufficiale in ordine al problema dell'esistenza di un'organizzazione parallela ai Servizi affermò: «...la mia esperienza mi consente di affermare che sarebbe assurdo che tutto ciò non esistesse... » ed ancora «... a mio avviso l'organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico, militare, della finanza, dell'alta delinquenza organizzata... ».

Questa descrizione letta oggi sulla base delle conoscenze acquisite in ordine alla Loggia P2, non può non porsi per noi quale motivo di seria riflessione, soprattutto quando si ponga mente alla sua provenienza da parte di un elemento che conosceva la loggia direttamente dall'interno e che professionalmente si occupava di servizi di informazione.

Passando ad altro argomento di ben più impegnativo rilievo, ricordiamo che i gruppi estremistici toscani compirono parecchi degli attentati (specialmente ai treni) che funestarono l'Italia tra il 1969 e il 1975. Il generale Bittoni (P2), comandante la brigata dei Carabinieri di Firenze, iniziò a svolgere indagini, cercando di dare impulso all'inchiesta e di coordinare le ricerche dei comandi di Perugia e di Arezzo. L'impegno degli ufficiali aretini si rivelò, peraltro, del tutto insufficiente, come ebbe a lamentare lo stesso Bittoni e come risulta dalle deposizioni dei sottufficiali.

Rilevato come ben due degli ufficiali superiori del comando di Arezzo incaricati delle indagini facessero parte della Loggia P2 (uno di essi parlò della relativa iscrizione come di una «necessità») e che Gelli rivolse al generale Bittoni discorsi sufficientemente equivoci da provocarne una accesa reazione, non sembra azzardato mettere in rapporto di causa ed effetto l'infiltrazione della Loggia nell'Arma e l'insufficienza dell'indagine.

A questo si aggiunga che analoga situazione si verificava per la questura della stessa città, essendosi pòtuta accertare l'iscrizione alla Loggia non solo di due dei suoi funzionari, ma addirittura del questore pro tempore. Anche in tal caso appare legittimo mettere in rapporto di causa ed effetto il fenomeno di infiltrazione piduista con disfunzioni « mirate »: così, ad esempio, nel caso della informativa su Gelli e Marsili e sui rapporti del primo con il gruppo Sogno e Carmelo Spagnuolo, richiesta dal giudice istruttore di Torino alla questura di Arezzo e mai ottenuta.

Fu rinvenuta, però, tra le carte di Castiglion Fibocchi copia dello scritto anonimo che aveva sollecitato alla richiesta i giudici torinesi: il Venerabile era stato quindi tempestivamente informato ed aveva potuto predisporre le sue difese.

In definitiva, sembra potersi concludere sul punto che le infiltrazioni piduistiche ad Arezzo nella Polizia e nei Carabinieri (ed il sospetto di infiltrazione anche nella magistratura, come si vedrà in seguito) servirono in quegli anni a conferire al Gelli un'aura di intangibilità, lasciandogli mano libera per tutte le proprie — non certo lecite — attività.

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