Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Un segreto come quello che custodisce Salvatore Riina, il capo dei Corleonesi, pronto anche lui a trame oscene. Salvatore Enea, punta di diamante di Cosa Nostra a Milano, ignaro di essere intercettato, spiegava in due parole il potere di Riina: «Lui aveva il Sisde, che gli portava tutte le informazioni, gli diceva: quelli si stanno riunendo e lui, woorm! Capito? Come lui capiva che c’era qualcuno, un malcontento, lui lo guardava negli occhi e capiva! Perché era furbo, troppo furbo! Non intelligente, furbo! Tutta la Questura era alle sue dipendenze. Come fai, vai alla Questura te a denunciarlo? La Questura stessa ti ammazza! E se qui c’è qualche microspia queste cose sono registrate e poi, te la prendi nel culo anche tu»

Le informazioni sono il vero capitale. E Riina le aveva di prima mano. Quando, nel 1987, da uomo libero, ebbe pienamente il controllo di Cosa Nostra mentre tre quarti della commissione mafiosa era in galera, consolidò la rete di relazioni che possono fare di un uomo di potere un dittatore assoluto. E in mezzo a omicidi, lupare bianche e progetti di stragi si curò di formalizzare quei rapporti. Di avere un ufficiale di collegamento tra il vertice dei Corleonesi e i servizi segreti, conosciuto alla schiera dei suoi uomini più stretti. Sì, proprio lui, l’irriducibile, pronto a invocare la presunta ortodossia dell’integrità mafiosa, trescava alla maniera dei vecchi padrini con chi ufficialmente doveva dargli la caccia. E non ne faceva mistero.

Accentratore com’era, scelse tra gli uomini del mandamento mafioso che più gli stava nel cuore, la Noce. E tra i figli di Raffaele Ganci, il boss della zona di Palermo che va dal Tribunale alla circonvallazione, volle Domenico, uno dei rampolli del padrino suo fedelissimo. Lo elevò perfino al rango di rappresentante del padre detenuto alle riunioni più delicate della commissione. «Nel 1987 Domenico Ganci era stato incaricato da Salvatore Riina di intrattenere i rapporti con il mondo esterno a “Cosa Nostra”, con l’autorizzazione ad avvicinare, nell’interesse di questa, persone appartenenti alla massoneria e ai servizi segreti; in tale incombenza

Domenico Ganci sostituì Antonino Madonia, che la aveva svolto in precedenza e che però era stato appena arrestato». È questo il racconto che fa l’ex bancario, poi mafioso, quindi pentito, Antonio Galliano, già uomo di fiducia di Domenico Ganci

Ed è forse a questo che allude un altro pentito della Noce, Salvatore Cancemi, quando dice che al momento della strage di Capaci del 1992 Riina «fu preso per la manina».

Fino a «prendere due piccioni con una fava»: ovvero eliminare un magistrato, ormai trasferitosi a Roma, che però, come diceva Paolo Borsellino al fido tenente Carmelo Canale: «Se a Palermo fa le indagini, a Roma ne fa il doppio».

E contribuire a fare «scopa nuova», per dirla con il pentito Angelo Siino: agevolare, cioè, un nuovo corso politico per il Paese. Con l’obiettivo di ricavarne vantaggi per sé e per l’organizzazione. Per chi, come lui, godeva di ampi margini di manovra e per i dannati al 41 bis, i boss decimati dalla prima vera repressione antimafia coincisa con il primo maxiprocesso di Palermo.

Accordi, trame, patti che al carcere riconducono sempre.

Perché le prigioni sono luoghi ideali per intese su merci ignominiose. In carcere le odiate guardie custodiscono e vigilano, talvolta chiudono un occhio, o tutti e due. Ma c’è tra le divise chi ha il compito di carpire informazioni o di farsele semplicemente spifferare.

C’era, e in qualche modo c’è ancora, una struttura di intelligence tra le celle in grado di anticipare le mosse, sventare piani di morte e talvolta subirli. E certo anche di individuare i responsabili, snidare i latitanti, ottenere confessioni decisive.

Questa è la norma ed è perfino legittimo.

Ci sono le spie come ci sono le talpe, ma qui è la stortura che interessa. La deviazione sistematica, le organizzazioni parallele che interferiscono pesantemente con il corso delle cose, lo eterodirigono, lo piegano ai loro fini.

In questo modo un pezzo di quella struttura ha colto i segnali di cedimento o li ha incentivati. Con le buone o con le cattive. Ha utilizzato infiltrati, agenti provocatori, detenuti delatori per avere dritte, e talvolta ha anche messo in campo squadrette di picchiatori che hanno trasformato il 41bis, il carcere duro che doveva impedire ogni contatto tra i detenuti di mafia e l’esterno, in un inferno alla Guantanamo.

Con il provvedimento che inaspriva la detenzione si intendeva blindare Cosa Nostra, rendere impossibile il flusso di informazioni da e per il carcere. Precludere la possibilità che i capi restassero tali anche dietro le sbarre, che i loro ordini arrivassero dritti alle orecchie di chi doveva eseguirli.

A questo dovevano servire la modifica all’ordinamento penitenziario e i bracci speciali del circuito dell’alta sicurezza. E non a trasformare Pianosa e l’Asinara in una sorta di incubatore di nuovi collaboratori di giustizia, spinti dall’afflizione ad assecondare le richieste di investigatori e pubblici ministeri. Costringendoli, quando ne hanno le capacità, a distillare il vero dal verosimile, il conosciuto dal saputo, il fatto dalle opinioni, la menzogna dalla prova.

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