Ecco un sottobosco di boss illetterati e patetici padrini con le loro peregrine citazioni pullulanti di «prove scaccianti», persone minacciate dalla «spada di Damacca» e che a collaborare non hanno mai avuto il minimo «tintinnamento». Protagonista della nuova serie del Blog è il linguaggio dei mafiosi, così com’è, pieno di strafalcioni, ridicolo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo lapsus, freddure e frasi assurde pronunciate dai mafiosi (ma non solo) nelle aule di giustizia di tutt’Italia, tratte dal libro Signor giudice, mi sento tra l’anguria e il martello (Navarra Editore, 2010, e pubblicato nel 1996 da Mondadori) scritto da Lino Buscemi e da Antonio Di Stefano.
Miti da sfatare, leggende da smascherare, ecco servita Cosa Nostra al naturale, «attraverso una spassosa selezione di autentiche balordaggini» (vere e proprie gag comiche), che svelano l’altra faccia di una potentissima organizzazione criminale.
Ecco un sottobosco di boss illetterati e patetici padrini con le loro peregrine citazioni pullulanti di «prove scaccianti», persone minacciate dalla «spada di Damacca» e che a collaborare non hanno mai avuto il minimo «tintinnamento».
Protagonista della nuova serie del Blog è il linguaggio dei mafiosi, così com’è, pieno di strafalcioni, ridicolo.
Il titolo del libro che proponiamo è Signor giudice, mi sento tra l’anguria e il martello (Navarra Editore, 2010, e pubblicato nel 1996 da Mondadori) scritto da Lino Buscemi – avvocato, giornalista, collaboratore della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale Siciliana e della Commissione parlamentare Antimafia – e da Antonio Di Stefano – scrittore e docente – ed è uno «stupidiario» che raccoglie lapsus, freddure e frasi assurde pronunciate dai mafiosi (ma non solo) nelle aule di giustizia di tutt’Italia.
Non una caricatura, non un’invenzione letteraria: verbali autentici, trascrizioni fedeli, parole così goffe da sembrare uscite da un copione comico. Così si smonta anche la retorica sui “padrini” dei film e delle serie tv, delle canzoni dei neomelodici. Boss che incutono terrore e contemporaneamente dichiarano di aver sempre vissuto «allo stato ebraico» o che hanno avuto tutti «alla loro mercedes».
Il potere mafioso, in queste pagine, perde la maschera. La paura e l’omertà lasciano spazio alla risata, e la risata diventa un’arma contro di loro.
Buscemi e Di Stefano hanno fatto un lavoro prezioso: trascrivere fedelmente le parole dei mafiosi. È un ridicolo che pesa, che incrina l’immagine di onnipotenza, che restituisce la misura esatta di chi ha regnato in Sicilia, naturalmente con dietro e accanto folte schiere di complici.
E così restituiscono questi boss alla loro dimensione reale, mentre inciampano in un congiuntivo o confondono un’aula di tribunale con un’«aula hamburger».
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