Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


La mattina di quella domenica 13 novembre del 1949, i contadini di Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, in tutto dodici paesi in provincia di Palermo sulle Madonie, si erano mossi insieme, dando vita ad una serie di cortei, snodandosi per le campagne circostanti, dove avrebbero occupato e preso possesso delle terre censite come incolte e mal coltivate. Diverse migliaia di persone si misero in marcia all’alba verso i feudi, tra questi quello di Strasatto, dove Luciano Leggio, boss mafioso di prim’ordine e tra i protagonisti della trasformazione della mafia da fenomeno agricolo ad urbano, era gabellotto. Dopo la tragedia avvenuta a Melissa, alla polizia era stato ordinato di non reprimere le manifestazioni, così l’occupazione continuò per molti giorni, sviluppandosi anche nei comuni fuori Palermo.

Il governo, viste le dimensioni che la lotta aveva assunto, decise di riprendere l’azione repressiva. Così scattò l’arresto di alcuni dirigenti sindacali e braccianti agricoli e ricominciarono gli scontri tra polizia e manifestanti. A San Cipirello vennero arrestate diciotto persone.

L’occupazione aveva avuto successo, con il risultato che circa tremila ettari di terreno erano stati arati e il grano seminato.

Mio padre, in quell’inverno del ’49, in attesa dei frutti della semina, era impegnato nell’organizzazione della ripresa delle lotte in primavera. L’obiettivo era conservare il diritto di raccolta sui terreni seminati, nella consapevolezza che il vero ostacolo era l’opposizione dei proprietari agrari.

Alle prime luci del giorno del 10 marzo 1950, a Bisacquino, centro agricolo della provincia di Palermo, un corteo di contadini, lungo tra i quattro e i cinque chilometri, stava lasciando il paese e mio padre era con loro. Cinque - seimila contadini andavano a misurare i terreni incolti e li lottizzavano: un ettaro a testa. Uomini e donne. Tante donne, alcune a cavallo, in testa al corteo, e tante bandiere: quelle rosse del PCI, le bianche della Dc e quelle della Cgil. Doveva rientrare a Palermo con la corriera delle tre del pomeriggio ma la perse. Allora decise di andare incontro ai contadini che rientravano dal fondo occupato. Giunse in vista del corteo, si scorgevano le bandiere e si udivano i cori delle donne, ma vide, anche, arrivare una colonna di automezzi carichi di poliziotti e carabinieri. Si rese conto che Vicari, il prefetto di Palermo, aveva messo in atto le minacce di repressione e aveva dato ordine di organizzare una vera e propria imboscata. Era già successo nei giorni addietro.

Mio padre decise di andare a parlare con i dirigenti della colonna. Riconobbe, tra questi, il tenente Panzuti dei carabinieri di Bisacquino, una persona ragionevole, con cui aveva trovato un’intesa nei giorni precedenti, ma questi, con lo sguardo chino, lo indirizzò al commissario capo dottor Panico.

Mio padre ricordava il commissario Panico in evidente stato di agitazione mentre, senza dargli il tempo di parlare, stava ordinando a uno degli ufficiali di togliere quello “sconcio di bandiere”.

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