Sono passati 45 anni dal colpo di Stato in Argentina, ma passeggiando per le strade di Buenos Aires se ne parla ancora. Il lavoro di salvaguardia della Memoria degli organismi per i diritti umani è attivo in ogni momento, ogni giorno, non solo il 24 marzo.

Nonne, madri e nipoti lottano perché l’Argentina e il mondo intero non dimentichino e lo fanno per onorare più di 30mila desaparecidos: uomini e donne fatti sparire nel nulla solo perché invisi al regime. Quattro donne per prime, hanno trovato il coraggio di denunciare, e se non fosse stato per loro chissà per quanto tempo quell’orrore sarebbe rimasto nascosto. Un crimine iniziato prima della presa del potere da parte dei militari.

Durante la dittatura sono scompare oltre 30mila persone (Foto di Carmen Baffi)

Un golpe dopo l’altro

Per comprendere come e perché si è arrivati al colpo di stato del 24 marzo del 1976, infatti, è necessario volgere lo sguardo indietro di decenni.

Il golpe di Jorge Rafael Videla fu solo l’ultimo di una lunga serie di shock democratici che si sono susseguiti in un secolo caratterizzato dalla violenza politica e dalla violazione dei diritti umani.

Il primo risale al 6 settembre del 1930 quando, per volontà del generale José Uriburu, viene fatto cadere il presidente Hipólito Yrigoyen. Da allora di episodi simili in Argentina se ne contano uno ogni dieci anni. L’esercito inizia a essere riconosciuto come l’unico mezzo di legittimazione della nazione e ogni tentativo di insurrezione viene represso nel sangue.

Gli oppositori arrestati dalla polizia venivano sottoposti a diverse forme di tortura con lo scopo di ottenere informazioni. Per questo le milizie si sottopongono a un lungo periodo di addestramento specifico.

È una delle evidenze che dimostrano come il ricorso alla tortura precede di molto la dittatura e che già l’Argentina di inizio Novecento si caratterizza per una forte instabilità politica, sociale e soprattutto economica. Quando i paesi europei e gli Stati Uniti smettono di acquistare prodotti argentini, costringendo il paese a industrializzarsi rapidamente, si fa spazio la figura del colonnello Juan Perón, capace di dar vita politica a una stretta alleanza tra la classe operaia e la piccola borghesia.

La violenza sociale però non si ferma e negli interessi contrapposti cresce la frattura che ancora oggi è la più profonda nella vita politica argentina: quella fra peronisti e antiperonisti.

Il 24 ricorre l'anniversario dal golpe e i cittadini riempiono le piazze per tenere viva la memoria (Foto di Carmen Baffi)

Dall’alleanza ideata da Perón, seppur in un quadro economico neoliberale, si sprigiona la spinta per modernizzare il paese e ridurre le diseguaglianze storiche. Le forze conservatrici non possono permetterlo. Il 16 giugno 1955 la Marina militare bombarda la Casa Rosada per eliminare Perón.

Il piano fallisce, ma il presidente è costretto all’esilio in Spagna, dove entra in contatto con il generale fascista Francisco Franco e dal quale si lascia sedurre. Trasformazione che lo porta a prendere le distanze dalla base dei suoi sostenitori, che intanto dalla patria aspettano, ignari, che il leader faccia ritorno per far trionfare il promesso sogno socialista.

Mentre nel resto del mondo sono in corso la guerra fredda, la rivoluzione cubana, il guevarismo, l’Argentina cambia un presidente all’anno.

Il 20 giugno del 1974, Perón ritorna dall’esilio. Arriva all’aeroporto di Ezeiza, dove ad attenderlo c’è quasi un milione di persone. Il suo discorso viene interrotto da una sparatoria sulla folla: 13 morti e 200 feriti.

Il massacro è stato studiato e attuato dall’Alleanza anticomunista argentina (Tripla A), un organismo creato dal ministro José López Rega, un uomo senza ideali, associato alla loggia massonica italiana della P-2, grande amico del fondatore Licio Gelli, lo stesso uomo scelto da Perón per affiancarlo durante il suo secondo mandato presidenziale.

Tuttavia, durante la sua assenza, durata ben 17 anni, si sono formati molti gruppi rivoluzionari: da un lato, i Montoneros, organizzazione di sinistra che sogna la vittoria del socialismo e addestra, contemporaneamente, i ragazzi della Gioventù peronista; dall’altro, si affermano i movimenti di guerriglia rivoluzionaria marxisti, come l’Erp (Esercito rivoluzionario del Popolo) e la Far (Forze Armate Rivoluzionarie).

Al suo ritorno è ormai chiaro il suo avvicinamento agli ambienti di destra: ha tradito i suoi sostenitori. Due mesi dopo muore e prende il suo posto la moglie Isabelita, sposata durante gli anni dell’esilio in Spagna. Incapace di gestire l’alta tensione all’interno del paese, quest’ultima affida il governo al ministro Rega, che già da mesi ha dato il via alla repressione della sinistra attraverso attentati, fucilazioni e sparizioni.

Il fenomeno della «desaparición» (la sparizione forzata degli oppositori politici), infatti, inizia già anni prima del golpe. «La persecuzione dei giovani era iniziata già nel 1974. Molti venivano arrestati per i loro ideali politici, in carcere torturati e poi fatti sparire.

Il colpo di Stato arrivò nel 1976 e gli arresti si intensificarono. I militari misero in atto una forma di repressione che era la sparizione forzata dei militanti: «Erano i nostri figli e le nostre figlie», spiega Nora Cortiñas, portavoce del gruppo delle Madri di Plaza de Mayo - línea fundadora. Nei due anni che precedono il golpe sono duemila le persone che scompaiono per mano della Tripla A, già finanziata dallo Stato e dalle Forze Armate.

Il colpo di Stato

Il 24 marzo del 1976, l’esercito, le forze armate e la marina sequestrano Isabel Perón: iniziano gli anni più violenti e terribili della storia argentina.

Quello che viene messo in atto, è un piano sistematico di repressione illegale contro chiunque si oppone o è sospettato di essere un oppositore al regime. Un piano conosciuto come «piano dell’esercito» e a capo del quale vi sono il dittatore Videla, il capo di Stato maggiore congiunto dell’esercito Roberto Viola e il generale Carlos Alberto Martínez.

In tutte le unità di polizia vengono allestiti centri clandestini di detenzione illegale, all’interno dei quali i sequestrati vengono torturati fino alla morte. Dal 1976 al 1982, sono 382 i campi di detenzione attivi in 11 delle 23 provincie del paese. La drammatica fine è uguale per tutti.

Vengono sequestrate tra le 15 e le 20mila persone, il 90 per cento delle quali viene assassinato. È un percorso lento, doloroso, disumanizzante che percorre varie fasi di tortura. Chi non muore sotto le scariche elettriche viene «trasferito», cioè narcotizzato, denudato, caricato su un aereo e buttato vivo nelle acque del Rio de La Plata. Si tratta dei cosiddetti «voli della morte», sistematici anch’essi.

«Dopo essere arrivata alla caserma dell’Esma, mi resi conto in fretta che i militari seguivano una routine precisa. Pur non avendo la cognizione del tempo, infatti, capii che i trasferimenti avvenivano una volta a settimana, il mercoledì. Un militare entrava con una lista di numeri, li chiamava, i detenuti si mettevano in fila indiana e venivano portati via. Io ero la numero 420 e ogni volta pregavo che non toccasse a me», racconta Ana María Soffiantini, una sopravvissuta.

I desaparecidos, nella Esma, venivano portati nella capucha (Foto di Carmen Baffi)

Anche le fabbriche vengono smantellate e occupate dalle forze armate per torturare ed eliminare più gente possibile. Il potere, inoltre, gode della complicità di una parte importante della chiesa cattolica.

Sono diversi gli accordi politici tra i militari e l’episcopato: il permesso di uccidere in nome di Dio in cambio di alcuni privilegi e la promessa di un’intera civiltà cattolica.

I sacerdoti hanno l’incarico di confessare i detenuti prima di essere uccisi, mentre chiudono le porte delle chiese ai familiari disperati che cercano invano i loro figli scomparsi. Un grande aiuto ai militari, lo danno anche i civili, complici nel silenzio o peggio, nel passare informazioni.

«Tutti sapevano, ma nessuno voleva dire cosa vedeva. Il vicino che vedeva un sequestro diceva di non aver visto niente e rientrava. Andavamo casa per casa a chiedere aiuto, ma nessuno apriva. C’era tanta omertà e complicità. È per questo che la chiamiamo dittatura civico-militare cattolica», dice Hebe de Bonafini, portavoce del secondo gruppo delle Madri di Plaza de Mayo.

Inoltre, la segreteria d’intelligence di Stato (Side), con l’aiuto diretto della Cia, inizia a perseguitare anche gli stranieri, attuando il meglio conosciuto «Plan Condor». Dall’altra parte, i gruppi dell’Erp e dei Montoneros continuano a illudersi di poter sconfiggere il terrorismo di Stato.

Tuttavia, nel giro di poco tempo, il primo viene completamente eliminato, mentre il secondo perde più di duemila militanti.  Stando ai dati che si riferiscono al 1976, in Argentina si commette un omicidio ogni cinque ore, esplode una bomba ogni tre e vengono fatti quindici sequestri al giorno.

«Oltre a far sparire i nostri figli e le nostre figlie, i militari misero in atto l’appropriazione indebita dei neonati. Se una militante era incinta al momento dell’arresto, veniva tenuta in vita fino al parto. Esisteva un reparto di ginecologia gestito dalle suore cattoliche, che faceva da tramite con il sistema. Portavano via i bambini ancor prima di farli abbracciare per la prima volta alle loro madri e li davano in adozione a famiglie di militari, capi delle Forze Armate o grandi imprenditori vicini al potere, privandoli della loro identità. Le madri, invece, venivano uccise. Quei bambini oggi hanno tra i 40 e i 50 anni, e sono i nipoti delle nonne di Plaza de Mayo, le quali ne hanno recuperato finora 130», spiega ancora Nora Cortiñas. I bambini scomparsi per appropriazione indebita sono oltre 500.

Le nonne di Plaza de Mayo presentano il nipote 130, dopo averlo ritrovato, nel 2019 (Foto di Carmen Baffi)

Madri contro il regime

Fuori dalle caserme e dagli uffici del governo, le file di madri disperate che denunciano la scomparsa dei figli è lunga chilometri. «Non sapevamo dove andare, ci rispondevano tutti che non stavano da nessuna parte, in nessun carcere. I desaparecidos non esistevano. Volevano tapparci la bocca, perché continuavamo a cercare i nostri figli», dice Hebe de Bonafini.

Fin dal giorno del colpo di Stato, le madri iniziano a fare resistenza. Si oppongono al regime, denunciano, chiedono di sapere la verità. Si fanno forza l’un l’altra, unite dal dolore che le accomuna. Si incontrano di nascosto, inventano parole in codice per parlare senza destare sospetti, perché i militari sono ovunque in città. «La prima cosa che ci inventammo fu di andare in più di 400 al ministero dell’Interno. Facemmo una lunga fila. Ci prendevano in giro, allora decidemmo di farlo anche noi: entravamo, uscivamo e ci rimettevamo in fila. Andammo avanti per tutto il giorno».

Le uniche a denunciare sono le donne di famiglia. Il governo nega ogni accusa, i militari altrettanto. Inizia il passaparola: «Andiamo tutte a Plaza de Mayo, lì dovranno vederci e ascoltarci per forza», ricorda De Bonafini. A partire dal 1977, quindi, iniziano a unirsi gruppi di familiari che cercano i loro cari. Nasce il Movimento delle madri di Plaza de Mayo, poi quello delle Nonne di Plaza de Mayo, in cerca dei loro nipoti sottratti ai genitori; e quello di altri familiari come fratelli, coniugi, zii, ecc. Chiunque abbia in casa un desaparecido si impegna nella lotta contro la dittatura.

«Il primo giorno che sono andata in piazza eravamo quattro, siamo arrivate a essere un paese intero», ricorda Delia Giovanola, una delle nonne di Plaza de Mayo.

«A ottobre del 1976 ero direttrice in una scuola di Buenos Aires. Mi chiamarono i vicini di mio figlio dalla città de La Plata per dirmi che lui e sua moglie erano stati sequestrati. Mia nuora era incinta di otto mesi. Chiesi se avessero preso anche l’altra bambina e mi risposero che degli uomini l’avevano portata da loro. Partii per andare a prenderla e la portai a casa mia. Non avevo idea di chi avesse preso i suoi genitori».

Giovanola inizia la sua lotta da madre, insieme alle altre. È una delle prime a recarsi a Plaza de Mayo, dove poco a poco il numero di quelle donne aumenta. Si prendono sottobraccio, una fila, poi un’altra, compatte iniziano a fare le loro ronde, chiedendo l’«apparizione in vita» dei loro figli. Lo fanno ancora, marcia numero 2.241, tutti i giovedì alle 15, da 45 anni.

«Un giorno una delle madri uscì dal gruppo in marcia e chiese ad alta voce se qualcun’altra avesse figlie scomparse in gravidanza. Uscii anche io. Ci dedicammo da subito, quindi, non solo a cercare i nostri figli, ma anche i nostri nipoti», spiega.

Iniziano una lotta nella lotta, che dura ancora oggi. Il nipote di Delia è il 118˚ «recuperato», si chiama Martín. Si riabbracciano nel 2015, dopo una ricerca lunga 39 anni.

«Quando l’ho ritrovato è stata la gioia più grande della mia vita, perché so che molte altre se ne sono andate prima di poter trovare e conoscere i loro nipoti. Eppure, non bastò a colmare un altro dolore enorme che ancora mi accompagna. Sua sorella, che da quando era piccola marciava al mio fianco e ha lottato per ritrovarlo, si è suicidata nel 2014. Sarebbe bastato resistesse un solo anno in più, invece non ce l’ha fatta a sopportare quella mancanza».

Le madri raccolgono per un anno, fino al 1977, i nomi di tutte le persone scomparse. L’ufficiale Alfredo Astiz si infiltra nei gruppi dei familiari sotto falsa identità, quella di Gustavo Niño, dice che suo fratello è scomparso.

In particolare, si avvicina al gruppo delle madri e la prima di loro che ha avuto un anno prima l’idea di riunirsi a Plaza de Mayo, Azusena Villaflor, lo accoglie come un figlio. Contemporaneamente, la lista di nomi è pronta per essere pubblicata su La Naciòn.

Le fondatrici, insieme ad Astiz e quattro suore francesi si incontrano nella chiesa di santa Cruz per raccogliere gli ultimi soldi necessari.

È l’8 dicembre del 1977, Astiz saluta Azusena con un bacio sulla guancia: è il segnale per dare il via all’imboscata. I militari sequestrano nove persone, tra cui due madri, Esther Ballestrino e Maria Ponce, e due delle suore francesi. Villaflor la catturano poche ore dopo la pubblicazione della lista di nomi, il 10 dicembre. Tutte vengono portate alla Esma, torturate e uccise in un volo della morte.

Sopravvissute

Il processo di riorganizzazione nazionale mostra il suo lato più cinico: oltre la metà dei desaparecidos sono lavoratori. Uomini in borghese, in gruppi da quattro, sei o otto, sequestrano i militanti casa per casa, saccheggiano e rubano ogni oggetto di valore che trovano. Portano i «sovversivi» nei centri di detenzione clandestina: fabbriche, scuole di addestramento dell’esercito, caserme della polizia. Dai tombini risalgono le note del tango, della cumbia. È per nascondere le urla di chi è sotto tortura nei seminterrati dei luoghi dell’orrore.

A nord di Buenos Aires, c’è la Esma, il più grande girone di quell’inferno. I militanti vengono portati in un edificio a tre piani sull’ala sinistra del cortile, su nella «capucha», la soffitta. Il tetto è spiovente, lo spazio poco. Sul pavimento, dei loculi in cui i prigionieri venivano ammassati e privati della propria identità.

Per tutto il tempo i militari li tengono incappucciati, è per questo che la capucha si chiama in questo modo. Un posto così buio dove non si vedrebbe nulla nemmeno senza sacco in testa. Le torture avvengono nel seminterrato, il «sotano». Solo alla Esma passano 5mila persone in otto anni, il 95 per cento delle quali viene ucciso sotto tortura o con i voli della morte.

I detenuti smettono di vivere non appena varcano la soglia dei centri di detenzione. Il primo step dura tra le 24 e le 48 ore di tortura. L’obiettivo non è uccidere, ma avere informazioni per arrivare ad altre persone da catturare. Depurazione sociale, tutti i sovversivi devono essere eliminati.
Il metodo più utilizzato per torturarli sono le scariche elettriche, oltre ai pestaggi e agli abusi sessuali. Chi non muore per elettroshock, viene «trasferito».

Le scariche elettriche non risparmiano nemmeno le donne incinta. «Quando mi hanno sequestrata avevo 16 anni ed ero incinta da meno di tre mesi. Nel centro iniziarono a torturarmi brutalmente, come facevano con tutti i miei compagni. Mi torturarono con la «picaña» (un pungolo che rilascia scariche elettriche e che i militari inseriscono nella vagina delle donne, ndr), quindi pensai che il feto dentro di me fosse morto, perché non l’ho mai sentito muoversi. Mesi dopo, in cella, l’ho sentito: in mezzo al terrore, non erano riusciti a prendersi l’unica parte viva del mio corpo, mia figlia. Aveva trionfato la vita. Quando mi rilasciarono e riuscii a trovare asilo politico in Svezia, i medici riscontrarono nelle analisi una forte anemia. La mia bambina si era nutrita del mio sangue, mi spiegarono. Il mio sangue fu la sua vita, il suo sangue la mia forza», racconta Ana María Careaga, sopravvissuta al Club Atletico, un edificio della polizia federale. Un centro di sterminio, messo in funzione nel seminterrato della caserma, dieci traverse più in là della Casa Rosada, il palazzo del governo, e attivo fino al 1977.

«Sono rimasta lì per quattro mesi, sempre bendata e con le catene alle caviglie. Le condizioni di vita erano tremende: non si poteva parlare, ridere, piangere; il freddo e la fame erano insostenibili. Un giorno, presero me e altri venti compagni e ci lasciarono andare».

Ana María non ha il tempo di avvisare sua madre, scappa. Prima in Brasile, poi in Svezia. «All’epoca telefonare era molto costoso. Nel centro di accoglienza mi diedero la possibilità di fare due chiamate: la prima per dire a mia mamma che stavo bene, la seconda la conservammo per quando sarebbe nata la bambina. Mia figlia Anita è nata l’11 dicembre del 1977, telefonammo per dare la bella notizia, ma ci dissero che mia mamma era stata sequestrata tre giorni prima nella chiesa Santa Cruz».

Ana María è figlia di Esther Ballestrino. Lontana da casa, non immagina che sua madre è morta.Oggi, Ana María lavora proprio nel centro sociale all’interno del luogo in cui sua madre è stata catturata 45 anni fa.

«Nella «capucha» eravamo tantissimi. Un giorno chiamarono il numero 420. Mi alzai, pensando che fosse arrivata la mia fine. Invece mi portarono nel «sotano» dove iniziarono a farmi lavorare per loro. Era una tortura anche quella: stare nello stesso posto in cui i miei compagni venivano uccisi e rimanere impassibile. A un certo punto capisci che per salvarti devi resistere. In realtà lo fecero per separarmi da un ragazzo con il quale era nata una relazione», dice Ana María Soffiantini.

I detenuti fanno i turni, controllano che non ci siano guardie, si scoprono gli occhi e cercano, in disparte dal resto dei detenuti, di prendersi un po’ di intimità, di umanità. Molti si conoscono e si innamorano proprio lì. «C’eravamo innamorati e io ero rimasta incinta. Temevo mi portassero via il bambino, non appena sarebbe nato. Invece, dopo anni di violenze, di torture di ogni genere e di orrore, ci fecero uscire insieme».

La dittatura è quasi finita, la giunta militare perde potere, molti iniziano a parlare, schiacciati dal peso dei fatti. Per mettere a tacere la comunità internazionale, iniziano a concedere la libertà «vigilata» ad alcuni detenuti. «Ci portarono in un appartamento, che sapevamo essere stato preso con la forza a chissà quale altro compagno. Non potevamo comunque abbassare la guardia, non potevamo parlare con i vicini, dovevamo stare attenti, perché sapevamo di essere sotto sorveglianza». Ma finché non viene restaurata la democrazia nel 1983, nessuno può vivere serenamente.

Mundial degli orrori

Il mondo si accorge di quello che accade in Argentina l’anno dei mondiali. È il 1978, decine di migliaia di persone da tutto il mondo atterrano a Buenos Aires per assistere alla competizione calcistica.

Lo stadio nazionale è a pochi metri di distanza dalle Esma. È infatti un modo per distrarre i cittadini dallo stato di paura al quale sono costretti, spostare altrove i riflettori internazionali puntati sui militari e proseguire indisturbati con i sequestri e le torture.

Tuttavia, aprire le porte del paese al mondo rappresenta un momento di alta tensione per il regime. Non arriveranno solo tifosi e amanti del calcio, ma anche moltissimi giornalisti che potrebbero raccontare più del dovuto. Ed è proprio ciò che avviene: le madri si riuniscono in quei giorni per marciare al centro della piazza come ogni giovedì, attirando l’attenzione della stampa che, vedendole, inizia a fare domande per sapere chi sono, cosa stanno facendo e perché. Loro denunciano, chiedono aiuto fissando l’obiettivo delle telecamere: i filmati superano le frontiere. Ormai nessuno può fingere di non sapere.

Dal 1979 le forze armate iniziano a perdere potere. La Commissione internazionale dei diritti umani degli Stati Uniti arriva in Argentina per verificare se le migliaia di denunce che i familiari dei desaparecidos hanno inviato sono vere. In programma, infatti, c’è un sopralluogo alla Esma. La marina viene avvertita in tempo, trasferisce i detenuti sull’isola del Silenzio, una zona di proprietà della chiesa. Pur di occultare le prove del terrore, modifica la struttura del centro di detenzione, cementando in entrata e in uscita la scala a chiocciola che collega la «capucha» direttamente al «sotano». La Commissione non trova nulla e lascia il paese.

Ad aprile del 1981, Roberto Viola prende il posto del dittatore Videla. I capi dell’esercito al potere cambiano di continuo, l’armata militare non riesce a trovare un guida forte, fino all’arrivo del generale Leopoldo Galtieri, che decide di riconquistare le isole Malvine, territorio argentino colonizzato dagli inglesi.

La guerra dura appena quattro giorni, ma l’Argentina ne esce distrutta: 641 morti e 1657 feriti. Il tempo della dittatura sta per finire. Nel 1983 è di nuovo democrazia. Il primo presidente eletto dopo il regime è Raúl Alfonsín. La promessa è di rispettare la legge e la Costituzione in nome della difesa dei diritti umani. Sarà lui ad avviare i processi e le condanne contro la prima giunta militare.

Crea la Commissione nazionale sulla sparizione di persone (Conadep), incaricata di scrivere il Nunca más (Mai più), un rapporto che raccoglie i casi degli scomparsi (8961) e le accuse ai membri delle forze armate (oltre 1500).

Una pubblicazione che oggi viene vista come l’ennesima «presa in giro» del governo, per i numeri che riporta in modo ufficiale. Nel 1985 iniziano i processi e nel 1986 viene riconosciuto alle vittime il diritto di ricevere un risarcimento economico da parte dello Stato.

Il movimeto delle madri si spacca. Hebe de Bonafini non ha dubbi mentre spiega il motivo: «Non potevamo accettare dei soldi da parte del governo. Non si trattava più di una lotta individuale, noi lottiamo per i trentamila scomparsi, sono tutti figli nostri. Prendere quei soldi avrebbe significato diventare complici del potere e ammettere che i nostri figli sono morti: non lo so, sono spariti», mentre Nora Cortiñas, dell’altra corrente, spiega che «dopo la dittatura molte madri non avevano più nemmeno una casa. I militari avevano sequestrato anche le abitazioni di molte di noi. Quindi i soldi li presero soltanto chi davvero ne aveva bisogno, le altre li diedero in beneficienza. Tenere viva la lotta dei nostri figli è un’altra cosa e continuiamo a portarla avanti ogni giorno», precisa.

Anche la tensione tra i militari aumenta: non accettano di essere accusati, processati e condannati, hanno agito in nome della patria. Continuano, quindi, a disseminare terrore, tra attentati e pestaggi.

Alfonsín non vuole mettere in pericolo la democrazia e incorrere in un altro colpo di Stato. Così si arrende all’esercito: approva le leggi di Obbedienza Dovuta e del Punto Finale. I processi vengono bloccati e si apre una lunga epoca di impunità, vissuta dalle vittime come un affronto, oltre che come l’ennesimo tradimento da parte del governo.

Nel 1989 torna al potere un altro presidente peronista, Carlos Menem, che anziché riscattare il paese, sugella il processo di impunità avviato dal suo predecessore, concedendo ai pochi condannati per delitti di lesa umanità l’indulto presidenziale. Il paese deve ricominciare, dimenticando il passato.

Mercedes "Porota" de Meroño - Asociación madres de Plaza de Mayo (Foto di Carmen Baffi)

Ma le madri e le nonne di Plaza de Mayo non si arrendono. Insieme all’aiuto di vari paesi europei riescono a far aprire i processi contro l’armata militare.

Arrivano le prime condanne: l’emissione di un ordine di cattura a livello internazionale, che costringe i colpevoli a non poter uscire dal paese. Tuttavia, l’unico Stato che porta avanti i processi per genocidio è la Spagna, gli altri emettono le condanne solo a difesa dei propri cittadini rimasti vittime della dittatura argentina. Inoltre, il Centro di studi legali e sociali (Cels) chiede agli Stati Uniti la documentazione che prova le relazioni tra Washington e Buenos Aires nella preparazione del «processo di riorganizzazione nazionale». Arriverà solo nel 2002.

Per riscattarsi di fronte alla storia, l’Argentina dovrà aspettare l’arrivo di Néstor Kirchner, proclamato presidente il 25 maggio del 2003. Sarà lui ad assumersi la responsabilità di costruire la memoria collettiva del paese, ponendo i diritti umani al primo posto nell’agenda pubblica.

Nel 2005 annulla le leggi di impunità: 200 ex militari condannati in un anno, 921 fino al 2017. 

La lotta delle madri per avere giustizia, finalmente, non sembra più vana.

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