L'Opa della Calabria su Forza Italia si consuma nel dietro le quinte del G7 del Commercio - andato in scena un mese fa - a Villa San Giovanni e Reggio Calabria. L'evento si traduce in una sorta di benedizione del vicepremier e presidente degli azzurri Antonio Tajani al padrone di casa Francesco Cannizzaro, potente deputato e coordinatore regionale del partito, il quale studia da ministro e, nell'immediato, aspira ad un sottosegretariato. «Credo sia il momento di maggiore visibilità nella storia della Calabria, la vetrina più prestigiosa di sempre», gongola il parlamentare reggino. In riva allo Stretto, perfino il governatore Roberto Occhiuto appare suo ospite. E Occhiuto, in Forza Italia, non è uno qualunque: è uno dei quattro vicecoordinatori italiani, eletto all'epilogo di un congresso segnato da forti tensioni, durante il quale la sua candidatura fu percepita come una sfida alla leadership post-berlusconiana dello stesso Tajani. Il partito calabrese, dunque, chiede strada al suo presidente e, indirettamente, alla premier Meloni. «Un sottosegretariato», tanto per iniziare. Così aveva tuonato all'indomani delle Europee.

Giusy Princi, vicepresidente del consiglio regionale, è stata tra i nove azzurri eletti a Strasburgo. Princi cugina di Cannizzaro, tanto per puntualizzare. E poi qui, sulla punta dello Stivale, e in Sicilia, Forza Italia è addirittura al 18 per cento, ovvero doppia il dato nazionale. La scalata è difficile da arrestare: legittimare Cannizzaro significa rassicurare il vicepremier e rabbonire, provvisoriamente, il governatore.

Ciccio dopo Antonio

Ma chi è Francesco Cannizzaro? Laurea in Scienze sociali, imprenditore, quarantadue anni, alla sua seconda esperienza come deputato della Repubblica, è un ex enfant prodige della politica calabrese, cresciuto all'ombra di Antonio Caridi, l'ex senatore della Repubblica arrestato, processato e assolto in via definitiva nel maxiprocesso alla componente riservata della 'ndrangheta denominato Gotha. Caridi uno che – secondo i giudici che lo hanno scagionato – era sì un «politico spregiudicato» e in rapporti con «le più importanti consorterie criminali per chiare finalità elettorali», ma non era un mafioso. Cannizzaro, uscito di scena il suo mentore, ne prese il posto nello scacchiere calabro. Il loro rapporto era simbiotico. «Chiaramente devo parlarne con Antonio... Per me decide Antonio...», ammetteva in alcune intercettazioni del 2012 acquisite dal Ros, che allora indagava proprio su Caridi e sulle presunte, mai approfondite giudiziariamente e per questo indimostrate, presunte «manipolazioni» delle schede ai congressi del vecchio Popolo della Libertà. Era, in pratica, la fase che segnò la gestazione di una nuova classe dirigente del potente centrodestra reggino, poco prima che il governatore Scopelliti fosse costretto alle dimissioni in ragione delle sue sventure giudiziarie. «Mi fa male la mano, Antonio...», diceva («ironicamente», almeno secondo il Ros) Cannizzaro a Caridi: «Sì, posso procedere vero? Vedi che mi stai autorizzando...», aggiungeva. Con ciò «chiedendo l'autorizzazione di procedere alla manipolazione delle schede elettorali», annotava la polizia giudiziaria in un'informativa poi acquisita al maxiprocesso Gotha.

Carriera e grattacapi

La sua carriera politica ebbe inizio, di fatto, nel 2005, quando a ventitré anni divenne consigliere comunale e poi assessore al Comune di Santo Stefano d'Aspromonte. Consigliere provinciale di Reggio Calabria dal 2012, nel 2014 fu eletto consigliere regionale con 6.109 preferenze, poi designato capogruppo della Casa della libertà. Nel 2018 fu quindi candidato alla Camera dei deputati, conquistando il suo primo scranno a Montecitorio. Una carriera folgorante e per nulla offuscata da qualche fastidio giudiziario, da cui uscì immacolato.

Nel 2016, ad esempio, venne indagato nell'indagine Ecosistema, accusato di aver beneficiato, alle precedenti elezioni regionali, dell'appoggio del clan Paviglianiti: assolto «perché il fatto non sussiste». Nello stesso anno, l'operazione Alchemia colpì la cosca Raso-Gullace di Cittanova e coinvolse un influente imprenditore in stretti rapporti coi vertici del clan: vennero fuori ulteriori intercettazioni relative a presunte raccomandazioni richieste al politico reggino per condizionare un concorso. Cannizzaro, come Caridi, non fu neppure imputato, mentre l'imprenditore, venne assolto all'epilogo del processo.

I guai altrui

Le tappe dell'ascesa di Cannizzaro hanno una casuale coincidenza temporale con le disgrazie mediatico-giudiziarie di altri esponenti di punta di Forza Italia in Calabria.

Nel 2020, ad esempio, fu arrestato il senatore azzurro Marco Siclari, accusato di aver beneficiato dell'appoggio elettorale del famigerato clan Alvaro di Sinopoli: fu processato, condannato in primo grado, assolto in appello perché «il fatto non sussiste». Siclari era l'uomo di fiducia di Antonio Tajani in riva allo Stretto. Cannizzaro lo rimpiazzò nel cuore dell'attuale leader di Forza Italia, che l'11 dicembre 2023 lo nominò commissario del partito in Calabria. Anche in questo caso, un'altra fatalità favorì la sua nomina. Cannizzaro, infatti, sostituì, alla guida di Forza Italia calabrese Giuseppe Mangialavori. Già in corsa per un sottosegretariato, Mangialavori venne azzoppato dall'eco di un'inchiesta giudiziaria che coinvolse alcuni suoi fiduciari della provincia di Vibo Valentia, arrestati, processati e condannati in primo grado nel maxiprocesso Imponimento alla cosca di Filadelfia guidata dal boss Rocco Anello: si sarebbero prodigati affinché il clan sostenesse il senatore azzurro uscente alle politiche del 2018, nelle quali fu invece eletto come deputato. Un anno dopo la sua designazione alla presidenza della Commissione bilancio della Camera, Mangialavori rassegnò le dimissioni dal coordinamento di Forza Italia, spianando così la strada alla leadership di Cannizzaro.

Cannizzaro eredita un partito tra luci e ombre. I numeri dicono che alle urne Forza Italia va fortissimo. Mentre a livello nazionale è al 9,6 per cento, in Calabria è quasi al doppio. In provincia di Reggio, alle Europee, ha addirittura superato Fratelli d'Italia attestandosi al 26 per cento. In città tocca addirittura il 28,7 per cento. Non è tutto oro, però, quel che luccica, in una regione nella quale esiste il record italiano di enti locali commissariati per sospette infiltrazioni mafiose. E dove la politica è continuamente travolta dalle indagini giudiziarie, salvo poi registrare clamorose debacle dei costrutti accusatori. Accadde a Caridi, allo stesso Cannizzaro, a Siclari, ma anche all'ex presidente del Consiglio regionale nonché vicecoordinatore regionale Domenico Tallini, pure lui arrestato, processato e alla fine assolto. Restano i fatti, i dati storici. E i profili, talvolta ritenuti penalmente irrilevanti o non adeguatamente provati; talvolta ricostruiti in aderenza alla verità, che rilevanti dovrebbero essere sul piano etico e morale, soprattutto per una classe dirigente.

Le antiche relazioni

D'altro canto, Forza Italia soprattutto in Calabria, nel Reggino in particolare, ha un pessimo retaggio da dover ripulire. La Cassazione deve ancora pronunciarsi, è bene evidenziarlo. Intanto, però, la Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, confermando l'ergastolo a Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone quali architetti del patto stragista tra Cosa nostra e 'ndrangheta dopo gli attentati di Capaci e D'Amelio, lo scrive a chiare lettere: la «sinergia di affari criminali» tra i Corleonesi e il clan Piromalli di Gioia Tauro, evolutasi in un «disegno di natura politico-eversiva», individuava «proprio nel proprietario della Fininvest Silvio Berlusconi il nuovo referente politico nazionale della mafia».

E questa sinergia - emerge dagli atti - ebbe la sua sublimazione nella Piana di Gioia Tauro con la nascita di Forza Italia. D'altronde, al netto del profluvio dei pentiti, fu eloquente don Peppino Piromalli, il 24 febbraio del 1994, quando nella veste di imputato per le estorsioni consumate ai ripetitori Fininvest, esclamò davanti al Tribunale di Palmi: «Voteremo Berlusconi! Voteremo Berlusconi!».

Altrettanto efficace Giancarlo Pittelli, senatore azzurro della prima ora, recentemente condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa ad undici anni di reclusione: «Ragazzi, Ragazzi... Io lo so - affermava, intercettato grazie ad un trojan, il 7 luglio del 2018 - perché Dell'Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro». «Un macigno... lo dice non l'uomo della strada ma un ex parlamentare», avrebbe spiegato in aula il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, secondo il quale l'interlocutore di Dell'Utri non sarebbe stato don Peppino Piromalli, capo storico del casato mafioso calabrese, ma il nipote, Pino Piromalli detto “Facciazza”, deputato a traghettare il blasone del suo clan dal vecchio al nuovo millennio. «Sull'attendibilità di tale rivelazione – scrisse poi dal canto suo il presidente della Corte d'Assise d'Appello di Reggio Bruno Muscolo – è superfluo aggiungere alcunché».

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