Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.


Sono le consuetudini, i rapporti cordiali che descrivono bene il clima della Sicilia di quel periodo: nell’ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro che aveva sede nella Curia di Monreale governata da monarca assoluto da monsignor Salvatore Cassisa si trovavano insieme uomini politici, ex questori, magistrati, burocrati del Comune e della Regione siciliana, generali dell’esercito, ufficiali dei carabinieri, prelati, i signori degli appalti di Palermo, con in testa il conte Arturo Cassina, che ha goduto del monopolio della manutenzione di strade e fogne dal 1938 al 1985, e Bruno Contrada, che nonostante tutto non sarà allontanato dai Servizi, guidati da Riccardo Malpica, durante la guida del ministero di Antonio Gava.

Nel suo memoriale redatto a futura memoria, Peppuccio Insalaco, il giovane segretario del ministro dell’Interno Franco Restivo diventato sindaco e ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver provato a scardinare dall’interno quel blocco di potere, e che viaggiava ancora con in tasca la tessera del ministero, puntò l’indice sui Cavalieri come aveva fatto il 24 luglio del 1984 in un interrogatorio durante il quale si era soffermato a lungo sul potere dei Corleonesi e dei Greco.

Cosa fosse la società palermitana lo raccontò Alberto Stabile per «la Repubblica»: «Politici e magistrati; imprenditori e alti funzionari dello Stato; ufficiali d’Arma e docenti universitari: una folla di potenti è accorsa al richiamo dell’Ordine del Santo Sepolcro per far corona all’iniziazione di 39 nuovi cavalieri e dame. L’elenco dei presenti alla cerimonia per l’incoronazione di 39 nuovi cavalieri, avvenuta quattro anni prima, è lo spaccato più vivido della miscellanea palermitana».

Era la città del 1984. In quello stesso anno, Giovanni Falcone fece perquisire la casa di Vito Ciancimino che già allora era a dir poco chiacchierato.

Saltarono così fuori due biglietti di auguri che Nicola Biondo ha pubblicato per «l’Unità» a marzo del 2012: «Molti fervidi auguri», scriveva nel Natale 1981 l’allora comandante del nucleo investigativo dei carabinieri Antonio Subranni all’uomo dei Corleonesi nella stanza dei bottoni. Poi ce n’era anche un altro con su scritto: «Grazie per le felicitazioni che Ella ha voluto formularmi. Molti fervidi auguri». Era la risposta alle congratulazioni per la nomina di Subranni a colonnello.

Un piano unico

Il 1988 è un anno cruciale nella svolta di Cosa Nostra: i Corleonesi hanno saldamente preso il potere con le armi dispiegando una tattica strategico-militare.

Il maxiprocesso si era concluso l’anno prima davanti alla Corte d’assise di Palermo con pesanti condanne. C’era da sgomberare il campo, bisognava evitare a tutti i costi che chi quel processo aveva istruito fosse ancora in condizione di determinarne l’esito nei gradi successivi di giudizio. C’era la necessità di lasciare mano libera alla diplomazia sotterranea delle cosche. Bisognava fare in modo che finisse come era sempre finita: assoluzioni in massa, improvvide scarcerazioni e il ghigno stampato sulla faccia di chi, ancora una volta, l’aveva fatta franca. Il 1988.

È questa la data di partenza, la premessa per comprendere e inquadrare dentro una nuova cornice la grande stagione dei misteri siciliani dell’anno successivo: dalla scoperta del rientro in Italia del pentito Totuccio Contorno, fino ad allora in custodia americana, alla bomba dell’Addaura, “il fallito attentato a Giovanni Falcone” che era un piano ben congegna to per costringerlo ad andare via da Palermo e arrivare, passo dopo passo tre anni dopo, alla scelta di imbottire di tritolo un cunicolo dell’autostrada di Capaci. Era l’atto finale di un complotto che era nato nel 1988 e già nel 1989 aveva portato Falcone a sperimentare l’accerchiamento mortale.

La scelta di Cosa Nostra di arrivare al redde rationem con le bombe di Capaci e via D’Amelio appare un po’ meno suicida e tutt’altro che disperata se si tiene conto che molte delle decisioni di Riina e soci erano frutto di un negoziato permanente con chi aveva il medesimo interesse a fermare Falcone e Borsellino per non rischiare di venire travolto da quella ventata di pulizia che dal basso risaliva ai piani alti del sistema. Perché mai, insomma, Cosa Nostra, senza assicurazioni su quel che sarebbe accaduto dopo, avrebbe dovuto imbarcarsi in un’operazione militare che inevitabilmente avrebbe impo to una reazione?

Il paradosso è che dal punto di vista mafio so non erano i Corleonesi l’anomalia da rimuovere, ma quel blocco investigativo-giudiziario rappresentato da Falcone. In questo, il punto di vista di Cosa Nostra era perfettamente coincidente con ampi settori dello Stato che trovavano un solido appoggio nell’opinione pubblica.

Quando Falcone venne a interrogarmi a Londra, durante una pausa, il mio avvocato inglese gli chiese: «Dottore Falcone, cos’è la mafia?». Lui rispose: «Occorre molto tempo per spiegarlo». Inter venni io e dissi: «La mafia è in tutte le strutture sociali, è dentro il governo, è nella politica, dentro le istituzioni e anche dentro il tribunale di Palermo». «Sì, ha ragione – rispose il giudice – meglio di lui chi può saperlo». Racconto questo episodio per dire che c’è Cosa Nostra e c’è la mafia. Cosa Nostra è l’organizzazione, ma la mafia è un modo di pensare e di essere. Falcone non puntava solo a combattere Cosa Nostra ma a distruggere anche la mentalità mafiosa, e questo quella che io chiamo mafia non poteva permetterlo. Dico che Cosa Nostra ha ucciso Falcone ma la mafia glielo ha permesso. E lo stesso discorso vale per Paolo Borsellino. Anzi lì sta venendo fuori che c’erano altre presenze, estranee a Cosa Nostra, anche quando si preparava l’esplosivo per la strage, un esperto di quella che io chiamo mafia, più pericolosa ancora, se è possibile, di Cosa Nostra. Quando io ho parlato di contatti avuti con esponenti dei servizi segreti, ho indicato una traccia che doveva essere approfondita. Lo stesso è emerso per via D’Amelio. Ma per quest’ultima strage sappiamo con certezza che c’è stato un depistaggio, anche se i responsabili non sono stati ancora individuati. Cosa Nostra da sola non poteva organizzare una strage con quelle modalità, io conosco bene quelli che l’hanno eseguita e non avevano la capacità di architettare un piano così perfetto. Da quel che so e che ho raccontato, hanno di sicuro avuto molti consiglieri. Per quanto riguarda l’attentato di Capaci, come facevano a conoscere tutti i dettagli del volo con il quale Giovanni Falcone sarebbe arrivato a Palermo? E invece avevano a disposizione tutti gli elementi. E si trattava di un aereo dei servizi segreti. Nulla di quel volo è rimasto segreto. Cosa No stra conosceva giorno e orario, nonostante i movimenti del giudice dovessero rimanere riservati. Solo un addetto ai lavori può avere accesso a quelle informazioni. Ed evidentemente così è stato. Falcone dovrà aver comunicato con qualche tempo d’anticipo la sua intenzione di tornare a Palermo e sarà stato predisposto un piano di volo con relativa assicurazione indicando il numero di passeggeri e lo scalo di destinazione, oltre che l’orario di partenza. Sono deduzioni logiche che ho fatto mentre mi trovavo in cella in Inghilterra, collegandole ai fatti di cui ero a conoscenza, mentre ho poi letto che l’indagine anziché concentrarsi sulla ricerca delle persone che erano state messe a parte di quelle informazioni si sono concentrate sulla caccia ad un uomo d’onore che risiedeva a Roma nell’ipotesi che fosse lui il basista, come se avesse facoltà di entrare in un aeroporto militare a controllare i piani di volo degli aerei dei servizi segreti. Per via D’Amelio si è scelto di affidarsi alle verità di Vincenzo Scarantino, la cui inattendibilità si vedeva ad occhio nudo, e si è fatto in modo che un pezzo importante di Cosa Nostra, il mandamento di Brancaccio, quasi non contasse nulla: di fronte a una strage di quelle proporzioni, solo una parte di Cosa Nostra aveva deciso e gli altri erano rimasti a subirne gli effetti. Si è voluto orchestrare tutto in modo che le cose andassero in un certo modo, e non posso non vederci lo zampino di chi ha goduto di protezioni in alto perché era complice dello stesso disegno.

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