Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Io, sbirro a Palermo” di Maurizio Ortolan pubblicato per Melampo nel 2018 con la prefazione di Alessandra Dino e sarà ristampato per la Zolfo Editore alla fine di gennaio 2023.


Roma, 1989. All’inizio di settembre mi ero preso due giorni di ferie, ero andato al campeggio, poi avevo chiuso la roulotte e l’avevo sistemata nel rimessaggio invernale e, una volta rientrato in ufficio, avevo finalmente terminato di buttare giù il rapporto sull’indagine che avevamo in corso, iniziata dopo l’arresto di Michele Zaza, il camorrista, in Costa Azzurra.

Non che fosse uscito molto, dall’indagine, anzi a dire la verità praticamente nulla, o almeno nulla che non si potesse riassumere in poche paginette, ma ai capi non era andato a genio doverla chiudere così, e volevano trovare il modo e l’occasione per proseguire; già a luglio il dirigente, Giovanni De Gennaro, mi aveva fatto sollecitare dal mio capo sezione, Francesco Gratteri, perché mi dessi da fare a riascoltare le intercettazioni e a cercare qualche appiglio investigativo per farci autorizzare una proroga. E il rapporto, alla fine, l’avevo scritto, ma era solo un riepilogo delle attività di indagine che avevamo svolto e non lasciava troppi spiragli per eventuali ripartenze: così mi aspettavo di vedermelo bocciare, e invece, sorprendentemente, era passato senza obiezioni ed era stato inoltrato all’Autorità giudiziaria.

In ufficio, al Nucleo, c’era movimento; niente di eccezionale, ma tutti i funzionari erano presenti, più del solito e in orari inconsueti; il capo andava tutti i giorni al ministero, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa si chiudevano spesso in concilio, anche con Francesco Gratteri.

Persino gli autisti di tutti e quattro i funzionari facevano i misteriosi, con l’espressione di chi la sa lunga, o almeno così vuol far credere, a metà tra l’informato e il preoccupato: insomma, che qualcosa bollisse in pentola era palese, ma sapere cosa, beh, era tutt’altra faccenda, ma non è che mi interessasse poi tanto, almeno in quel momento.

Al Nucleo ero arrivato da un paio d’anni, nella tarda primavera del 1987, segnalato da Livio, Massimo e Fulvia, tre colleghi del mio stesso corso, il primo corso per Ispettori, una figura professionale tutta nuova, per la Polizia italiana, inventata con la riforma del 1981 per tentare di iniettare modernità a un’istituzione che appariva vecchia e ingessata.

Venivo da esperienze di polizia “operaia”: il mio primo incarico, uscito dalla scuola di Nettuno alla fine del 1983, era stato al commissariato di San Basilio, periferia romana agguerrita e ostile, poi erano venuti il reparto volanti e la sala operativa di Roma. Per me Polizia, quella con la P maiuscola, significava solo stare in divisa per strada, oppure ascoltare i guai dei cittadini e provare ad arrestare qualche delinquente, facendo i conti con quella cronica esiguità di mezzi e di personale che avevo sperimentato al Commissariato.

Al Nucleo, invece, era tutto diverso: i mezzi c’erano, e De Gennaro pretendeva anche la forma: giacca e cravatta per tutti, toni bassi e understatement persino nella guida delle auto di servizio.

Ci si occupava di mafia e di mafiosi, ma anche di sequestri di persona, poiché il Nucleo era nato, sull’onda dell’emergenza di quegli anni, come nucleo antisequestri; la sezione di Antonio Manganelli seguiva, in generale, le indagini particolarmente delicate, mentre in quella di Alessandro Pansa, un autentico precursore del settore, si era iniziato a formare un gruppetto di ragazzi con qualche nozione di informatica, circolavano i primi pc direttamente collegati al Ced per le interrogazioni sugli archivi e sugli schedari di polizia e su altre banche dati, e avevamo anche le prime macchine per scrivere elettriche, quelle con un piccolo display, che stampavano un rigo o una frase per volta.

Dopo il marzo del 1988 il Nucleo Centrale Anticrimine era molto cresciuto in visibilità e considerazione grazie anche all’imponente operazione antimafia scaturita dalle dichiarazioni del “pentito” catanese Antonino Calderone; accadeva così, sempre più spesso, che in occasione degli eventi delittuosi più disparati al Ministero dell’Interno arrivassero pressanti richieste di “risposte adeguate” e di intervento di “personale specializzato”.

La politica girava la richiesta al Capo della Polizia, e la richiesta diventava un ordine impartito a De Gennaro, che ogni volta si trovava a dover distogliere uomini dalle indagini antimafia, alle quali teneva particolarmente, per accontentare i vertici del Dipartimento, le esigenze degli uffici periferici e l’opinione pubblica.

Uomini, al Nucleo centrale anticrimine, ce n’erano davvero pochi, eravamo circa una quarantina al mio arrivo, messi insieme dalla fusione di due gruppi: il Nucleo centrale antisequestri di Antonio Manganelli, già incardinato nella Direzione centrale della polizia criminale, nota come Criminalpol, e diversi agenti del Centro Interprovinciale Criminalpol del Lazio-Umbria e della Sezione Narcotici della squadra mobile di Roma, gli stessi che avevano gestito l’arresto e le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, iniziando una collaborazione lunga e proficua con la magistratura di Palermo, ma specialmente con Giovanni Falcone.

De Gennaro gli uomini se li era portati appresso dalla Questura di Roma, al momento del suo trasferimento alla Criminalpol, ed era iniziata la storia del Nucleo Centrale Anticrimine. De Gennaro, Manganelli, Pansa: un solo piccolo ufficio, un open space all’americana al piano terra della Criminalpol, con un ingresso separato, quasi a sottolineare specialità e riservatezza, e tre funzionari che sarebbero diventati tre capi della Polizia, uno dopo l’altro; ma allora, nel 1987, chi lo avrebbe immaginato?

Insomma, a farla breve, per soddisfare le necessità improvvise sul territorio senza esser costretti a distogliere dalle indagini più importanti i detective più navigati, nel 1987 venne istituita, nel Nucleo centrale anticrimine, la quarta sezione, forte di un funzionario, Giuseppe Zannini Quirini, che veniva dalla sezione narcotici della squadra mobile di Napoli, di quattro ispettori, tra i quali capitai io, e di una ventina di altri agenti provenienti un po’ da tutta Italia, di varia formazione.

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