Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


L’assetto di guerra prevedeva alcune conseguenze pratiche nella nostra organizzazione. Perché qui dobbiamo aggiungere, per rendere più chiaro il concetto, un’altra cosa. E cioè che insieme avevamo deciso e deliberato, è vero, ma che non tutti sapevamo tutto.

C’erano una serie di riunioni a gruppetti che ci servivano per le cose spicce, le cose pratiche, e quindi era importante che partecipassero solo i diretti interessati. Per contenere anche il desiderio che molti avevano – per tanti conti in sospeso che costellavano le nostre vite – di farsi giustizia da sé. E per evitare scenate di gelosia che alla mamma mai erano piaciute.

A Giovanni Brusca – così lo capite meglio – fu spiegato per filo e per segno come avremmo fatto saltare in aria l’autostrada dove passava il dottore Falcone, come fare per riconoscere l’auto, quando ammaccare il bottone del telecomando. Ma sull’attentato al dottore Borsellino, Brusca non sapeva nulla, né mai avrebbe saputo.

Era a conoscenza solo dello stretto necessario, appunto, e cioè che l’avremmo fatto. Ma siccome non lo riguardava direttamente, altro non gli era stato detto: il come, il dove, il quando, la chi, la come. Nulla. Lui si doveva occupare solo di Falcone, e in quel modo lì.

Era una strategia molto utile, perché ci metteva al riparo da fughe di notizie, sia al nostro interno, sia nel caso – che poi si sarebbe verificato – che qualcuno, come fecero poi in tanti, si fosse buttato pentito, o magari avvertisse la necessità pressante di vuotare il sacco delle confidenze. Cosa sai? Lo stretto necessario.

C’era anche chi non l’aveva presa bene, quando aveva scoperto che i tavoli erano più di uno, come i circoli e le stanzette, e che insomma alla fine eravamo stati tutti esautorati, chi più, chi meno; minchia, e insomma, un momento così importante, e poi di punto in bianco non contava più la famiglia o la Commissione provinciale?

Non c’era più da dare conto al mandamento o a qualche don ottantenne che si pisciava sui piedi e che però voleva dire ancora la sua?

Un’idea brillante

Il fatto è che Matteo nostro aveva avuto un’idea brillante, di quelle che solo a un capo possono venire, e questa idea era tanto bella… da non avere nome. E non dovete turbarvi, di questa cosa senza nome, perché alla fine la vera conquista di Matteo, in questi anni, se vogliamo mettere già un punto fermo a questo memoriale, è stata quella di aver sottratto la nostra definizione, e di averci trasformato in qualcosa senza nome, che non è la mafia, ma qualcosa di diverso. Cos’è? Boh. Fatta da chi? Boh.

Siamo spariti dal dizionario, grazie a Matteo, ma anche dalle Faq: mentre voi vi raccontate la favola bella delle coppole e dei pizzini, delle lupare e dei don, noi siamo già da un’altra parte. Dove? Boh. E tutto questo è merito di Matteo, ma siamo arrivati a capirlo solo molto dopo; sul momento nessuno di noi capiva la grandezza di idea che era, appunto, la «cosa senza nome» all’interno di Cosa nostra che si era inventata Matteo.

E c’era chi la chiamava Supercosa, la Cosa nostra di Cosa nostra, e tutti ci volevamo entrare, era il privé della mafia. Ma i pass li dava Matteo. E mentre noi ballavamo in pista, sulle rovine dell’Italia e sulle nostre, c’era questo salottino appartato, dove si prendevano le decisioni che contavano davvero e si guardava lo scanazzo. E fu trapanese l’idea della Supercosa.

Perché fu trapanese la deliberazione, l’organizzazione, l’esecuzione del programma dei mesi a venire, di quel ’92 che si annunciava, per usare un eufemismo, un po’ movimentato.

Fu in una di queste riunioni dell’élite di Cosa nostra messa su da Matteo che Riina disse una frase che oggi ci farebbero le magliette e le cartine dei cioccolatini – quelli dentro al tubetto – e la frase era: «È arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le proprie responsabilità», come se fosse un Che Guevara siciliano. Minchia che solennità, sembrava che a parlare era un capo di Stato, un papa, un Rockefeller, Draghi.

E come si abbassò la temperatura nella stanza dopo quelle parole! Tutti sentimmo di nuovo freddo, mentre fumavamo le nostre sigarette; il freddo che avevamo nelle ossa dell’umidità dei rifugi e delle intemperie a cui la vita ci sottoponeva, noi che avevamo in comune con lo zio Totò la sfortuna di essere stati sventurateddri.

Solo Matteo sembrava non battere ciglio: aveva lo sguardo stanco ma concentrato dell’autista di un bus quando vede davanti a sé l’ultimo chilometro, prima del capolinea. E forse per non farci montare la testa, che sembravamo tutti gli ambasciatori di qualche governo di caprari esuli, il signor Totuccio aggiunse una frase in dialetto: «Chiddru chi veni ni pigghiamu».

Ma avrebbe potuto dire anche: «Soccu arrinesce si cunta», il siciliano abbonda di modi di dire e proverbi per commentare la fatalità della vita. Perché di questo si trattava: si navigava a vista, da quel momento. Ricapitolando. ù

Quel piano, che avevamo deliberato con le riunioni della Commissione regionale, e che aveva mosso i primi passi in un incontro organizzativo generale di Castelvetrano, trovò la sua attuazione nelle riunioni operative tra fine 1991 e inizio 1992, quando si cominciò a definire innanzitutto la missione da compiere a Roma per cercare di ammazzare qualcuno dei nostri obiettivi.

Se a Castelvetrano avevamo deciso di fare effettivamente quella spedizione nella Capitale, nei successivi incontri preparammo la cosa. E le regole erano due: armi tradizionali per l’attentato, esplosivo solo con il benestare di Riina. Solo che a un certo punto le riunioni cambiarono forma. E non c’erano più rappresentanti provinciali, inviati da Catania o Caltanissetta. Matteo aveva fatto il suo primo, invisibile, colpetto di Stato all’interno di Cosa nostra.

Dato che eravamo in modalità operativa, non è che potevamo sentire il parere di ognuno pure per decidere con che auto muoversi a Roma, no? Ecco allora che i ritrovi, proprio perché erano operativi, furono composti da un gruppo di mafiosi fedeli a Riina e Matteo. Con loro c’erano infatti Salvatore Biondino, Vincenzo Sinacori, Giuseppe e Filippo Graviano. Eccola, la Supercosa. E anche lì, per fare sentire tutti coinvolti, ognuno il suo compito ce l’aveva.

Matteo aveva dato l’incarico a Vincenzo Virga di trovare l’esplosivo, che proveniva dalle cave di Custonaci e che era arrivato a Roma grazie a un camion messo a disposizione da uno di Mazara del Vallo, un certo Battista Consiglio, che era un uomo di cui noi ne facevamo uso e consumo.

Tanto che a Mazara era venuto Gioacchino Calabrò, uomo d’onore di Castellammare del Golfo, che faceva il carrozziere, e aveva costruito un’intercapedine dentro il camion di Consiglio. A proposito di Mazara, poi, Mariano Agate aveva messo inizialmente a disposizione un suo appartamento che aveva a Roma.

A Vincenzo Sinacori, che era per Matteo proprio un caro amico, e che era nel gruppo di fuoco, pur non rappresentando la famiglia di Mazara, furono dati incarichi delicati: portare a Roma le armi, fucili, pistole, e kalashnikov, e parlare con le famiglie napoletane e con Ciro Nuvoletta, per coinvolgerli nella missione. Francesco Geraci, il giovane gioielliere di Castelvetrano amico di Matteo, era stato già avvisato che avrebbe dovuto partecipare alla missione romana, anche se lui non era uomo d’onore.

Ma Matteo aveva già cominciato a invertire le regole, inventarne di nuove. «Geraci ci serve – ci aveva spiegato – perché è una persona pulita, non lo conosce nessuno come uomo d’onore». E fu in occasione dell’ultimo incontro, prima di partire per Roma – quando Agate doveva darci le chiavi dell’appartamento, e le armi e le munizioni erano nascoste a casa di Antonio Scarano – che Riina e Matteo ci dissero che quello che avevano costituito non era solo un gruppo di lavoro, ma qualcosa di estremamente importante e riservato, e doveva intendersi come una «Supercosa».

Erano le settimane in cui per noi dal dottore Falcone arrivavano notizie una più brutta dell’altra, e l’ultima era che aveva inventato una Super Procura contro la mafia, una specie di crema della crema degli investigatori e dei magistrati. E noi, allo stesso modo, avevamo creato questa Super Cosa, fatta solo da persone scelte da Riina e Matteo che rispondevano solamente a loro, senza il filtro del capo mandamento.

Non volevamo scimmiottare quello che faceva il dottore Falcone, ma su questo Matteo era chiaro: se volevamo sopravvivere, per tutto quello che sarebbe accaduto da lì a breve, non potevamo continuare con le regole di prima, le famiglie, i mandamenti, le mega riunioni e i fine settimana a cacciare lepri e a mangiare ricci. Basta.

Bisognava essere rapidi, silenziosi, fare circolare le informazioni il meno possibile, anche perché in giro c’erano già tanti pentiti, e altri ne sarebbero arrivati. Non c’era bisogno che i capi mandamento sapessero tutto.

Questo gruppo, aveva concluso Matteo, è un gruppo di persone che è meglio che essere uomo d’onore. Un gruppo che organizza pure le gite, tipo agenzia viaggi. La più importante, dicevamo, a Roma. Bisognava partire. E partimmo.

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