C’è chi nell’aprile 2013 manda un certo Alberto Lorusso in carcere a far parlare il capo dei Corleonesi, Totò Riina, libero di dire la sua su tutto. Un provocatore che tira fuori dalla pancia del boss l’inconfessabile con l’effetto di mestare, intimidire, confondere
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
C’è Giovanni, o Enzo, che almeno fino a maggio 2013 incontra il boss di Bagheria Sergio Flamia e gli consegna 150 milioni.
C’è Sergio Flamia, che ora è collaboratore di giustizia e racconta di quando era un uomo di Gino Mineo. E di Leonardo Greco, Nicolò Eucaliptus e Onofrio Morreale. Tutti con un piede nella mafia e l’altro tra le spie.
Grazie ai buoni uffici dei Servizi, nel 2008 Flamia ha schivato l’arresto per mafia: una manina ha ritoccato la sua data di nascita rendendone difficile l’identificazione. Finito poi in carcere, dice di aver ricevuto numerose visite di emissari dei Servizi che si presentavano come avvocati.
C’è la misteriosa struttura di via Notarbartolo a Palermo, sede dei Servizi, a cui fa riferimento il maresciallo della Direzione investigativa antimafia (Dia) Giuseppe Ciuro, arrestato nel novembre del 2003, accusato e condannato per rivelazione di segreto d’ufficio in favore di Michele Aiello, ritenuto uomo di Provenzano.
Ne parla come di una cellula supersegreta, quando non sospetta di essere intercettato. «Il coordinamento», dice lui, sa tutto dell’inchiesta che vede coinvolto lo stesso Ciuro, sa delle sue telefonate e dell’andamento del lavoro dei magistrati.
Quando viene interrogato, alle richieste di ulteriori chiarimenti farfuglia qualcosa di incomprensibile, poi, avendo di fronte pm con i quali è stato gomito a gomito per anni, si limita a dire: «Mi rendo conto che mi sto arrampicando sugli specchi». In via Notarbartolo hanno già capito e si lasciano dietro un ufficio vuoto. Del «coordinamento» non rimane traccia.
C’è il tycoon della sanità siciliana Michele Aiello, che costruisce una rete di spie al suo servizio per ripararsi dalle indagini ma intanto prende informazioni sulle ricerche di Provenzano e le fa avere a chi di dovere. Finisce in carcere, ma gli diagnosticano il favismo e lo tengono fuori finché non scoppia lo scandalo.
C’è chi nell’aprile 2013 manda un certo Alberto Lorusso in carcere a far parlare il capo dei Corleonesi, Totò Riina, libero di dire la sua su tutto. Un provocatore che tira fuori dalla pancia del boss l’inconfessabile con l’effetto di mestare, intimidire, confondere. Loro sono solo alcuni dei guastatori, agenti speciali sotto copertura nell’implacabile scorrere della storia. Sono gli specialissimi infiltrati del bene e del male.
Hanno divise o toghe, tesserini da parlamentare o da giornalista. Brevetti di loggia e curriculum criminali. Hanno una di queste cose o tutte insieme. Hanno il volto pulito di chi serve la causa o quello impresentabile di chi cerca riscatto mondandosi del peccato, salvo ricadere in tentazione. Hanno facce così o per nulla raccomandabili. Sono tra noi quando non tramano alle nostre spalle. Sono ovunque ci sia qualcosa da fare o da non fare.
Specialisti nella manomissione quanto nell’omissione. Possono cambiare la storia mettendoci le mani o lasciando correre senza intervenire. Sono ombre, eppure ci sono. Lasciano tracce, poche, e scie, molte. Perché l’orma latita ma l’odore del loro passaggio, quello puoi ancora sentirlo.
Li incontri nei processi, sul banco degli imputati, tra la pubblica accusa o la difesa, dietro lo scranno dei giudici o sulla sedia dei testimoni, li leggi sui resoconti, puoi perfino ascoltarli blaterare in tv e non ne ricavi molto se non il sospetto della menzogna. Giocano con le parole – e spesso non solo con quelle – per edificare l’inganno, lo demoliscono e ricominciano usando altre parole. Perché il loro libro è bianco, la loro coscienza nera, il gioco sempre doppio e lo specchio trasparente.
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