La questione della reputazione come moneta da spendere nel mondo del narcotraffico solleva un altro problema, che spesso si perde nella narrazione di TV, giornali e forze dell’ordine, e cioè quello dell’appartenenza. Chi è davvero ‘ndranghetista e chi non lo è, nell’universo di calabresi che si impegnano nel narcotraffico?
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa una settimana questa nuova serie sarà dedicata al Festival di Trame 2025
Il narcotraffico è un gioco di reputazione. Al 2025, nonostante tutti i cambiamenti nel commercio di sostanze stupefacenti attraverso continenti e oceani, la reputazione – il nome, l’appartenenza – sono la più importante risorsa che un narcotrafficante può investire per ricavarsi e poi mantenere la propria fetta di mercato, cosa assolutamente non facile da fare. Ce lo raccontano gli ultimi collaboratori di giustizia – legati alla ‘ndrangheta – nelle loro recenti dichiarazioni alla Procura Antimafia di Torino. Vittorio Raso racconta come in Spagna “qualche fornitore capiva subito che facevamo parte della ‘ndrangheta, io spendevo la mia appartenenza alla famiglia Alvaro, dicevo che avevamo l’uscita al porto [Gioia Tauro] grazie ai Pesce, grazie a Bartolo Bruzzaniti, cose che dicevo a qualche narcotrafficante per accreditarmi”. Vincenzo Pasquino racconta che il “PCC [Primero Comando da Capital, gruppo di primaria importanza per la logistica del narcotraffico in Brasile] non trattava con soggetti non introdotti in famiglie di ’ndrangheta. Loro sapevano che ero uno ‘ndranghetista.”
Dagli anni delle operazioni Decollo in poi – i primi anni 2000 – la narrazione sul narcotraffico a mano delle mafie nostrane si è assestata su una serie di punti fermi: la ‘ndrangheta è leader del narcotraffico soprattutto per la cocaina – il “bene” di lusso del narcotraffico - dall’America latina (Brasile e Colombia in primis); la camorra ha una rete europea notevole, soprattutto in Spagna e principalmente, ma non esclusivamente, per cannabis e marijuana, i cui consumi, ancora largamente criminalizzati, rimangono stabili; Cosa nostra si deve servire, cioè rifornire, dalla ‘ndrangheta e dalle altre organizzazioni criminali sul territorio italiano per mantenersi nei circoli del narcotraffico ma sta “crescendo” (o forse riemergendo) in modo stabile.
Nonostante questa narrazione sia diventata mainstream, può portare, una ventina di anni dopo le operazioni Decollo, a una cosiddetta “visione a tunnel” – tunnel vision – laddove non considera l’enorme velocità a cui si muove il mercato globale del narcotraffico e soprattutto la costante pressione di chi vi partecipa, soprattutto a certi livelli.
Prendiamo la ‘ndrangheta, il cui ruolo nel narcotraffico è tanto apicale quanto frainteso. Innanzitutto, bisognerebbe parlare al plurale – i clan di ‘ndrangheta hanno capacità diverse di penetrare nel mondo del narcotraffico (alcuni non hanno proprio capacità di farlo) e quasi mai la loro capacità dipende dall’organizzazione, cioè dalla struttura organizzativa totale della ‘ndrangheta. In altre parole, la reputazione degli Alvaro di Sinopoli, o dei Barbaro di Platì, o dei Nirta di San Luca si gioca sul cognome prima e sull’essere “calabrese” (cioè ‘ndranghetista) poi. Se ci sono problemi con un pagamento ai fornitori all’interno di una famiglia, le famiglie alleate nel narcotraffico possono (non devono) intervenire a salvaguardia dell’affare, ma non si tratta mai di un intervento a tutto tondo delle strutture apicali della ‘ndrangheta. Le strutture apicali della ‘ndrangheta raramente si occupano di ‘narcotraffico in quanto strutture di coordinamento, di risoluzione dei problemi, e del mantenimento del “libro delle regole” dell’organizzazione: non sono strutture esecutive per gli affari.
Una seconda questione riguarda le relazioni con gli altri attori sul mercato globale dei narcotici, soprattutto altri gruppi criminali ormai diventati leader nel narcotraffico, come i gruppi balcanici. Laddove la fetta del mercato della cocaina si è notevolmente ridotta per alcuni dei clan calabresi – rimanendo comunque redditizia – la fetta dello stesso mercato si è ampliata per gruppi serbi o albanesi, ma anche turchi, che negli anni hanno acquisito un loro modus operandi, consolidato nuove rotte spesso controintuitive, e sfidato le forze di polizia di mezzo mondo. I “nostri” devono gestire bene questi rapporti: lo stesso Raso ci dice come usava la sua reputazione anche con gli albanesi – partner di pari livello per gli Alvaro:“loro quando sapevano che tu eri un calabrese, avevano molto rispetto, perché si sa che i calabresi sono pagatori e non truffatori, quindi mi conveniva spendere questa mia veste, ma anche il fatto di essere calabrese già aiutava”.
La questione della reputazione come moneta da spendere nel mondo del narcotraffico solleva un altro problema, che spesso si perde nella narrazione di TV, giornali e forze dell’ordine, e cioè quello dell’appartenenza. Chi è davvero ‘ndranghetista e chi non lo è, nell’universo di calabresi che si impegnano nel narcotraffico? Nel mondo del narcotraffico ci sono broker presunti ‘ndranghetisti ma anche uomini di origine calabrese, che ‘ndranghetisti non sono – si pensi a Nicola Assisi in Brasile. Ci sono ‘ndranghetisti che sono membri apicali del loro clan, si pensi a Rocco Morabito. Ci sono poi ‘ndranghetisti che cercano affiliazioni “ufficiali” proprio per accreditarsi meglio nel mondo del narcotraffico, si pensi a Vincenzo Pasquino. La questione dell’appartenenza, spesso così difficile da provare per le forze dell’ordine, è questione di sopravvivenza per chi si avventura nel narcotraffico: l’appartenenza deriva dal riconoscimento e il riconoscimento garantisce reputazione, come negli anni 2000, tanto oggi, al netto dei cambiamenti in corso.
È fondamentale rifuggire da narrazioni mainstream che tendono a semplificare eccessivamente il complesso panorama del narcotraffico, presentando le organizzazioni criminali come entità monolitiche e invincibili. Questa visione deterministica non solo mitizza le capacità della ‘ndrangheta e di altre mafie, ma rischia di oscurare le dinamiche interne, le rivalità e le sfide che queste organizzazioni affrontano quotidianamente nel mercato globale.
© Riproduzione riservata



