Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Avevamo visto le serre, dentro le quali si coltivano pomodori, peperoni, melanzane, cetrioli, zucchine. I piccoli box di plastica coprono tutte le colline e la pianura di Vittoria fino a Donnalucata e Ragusa Marina, decine di migliaia di famiglie abbarbicate alla terra con questo lavoro quasi da orafi, ogni piantina va tenuta in incubatrice, sostenuta, controllata ogni giorno, curata, raddrizzata, tenuta nel giusto tepore, difesa dal gelo, dalla pioggia, dal vento. E in effetti è un lavoro che produce oro, poiché gli ortaggi fuori stagione possono sfiorare anche le mille lire al chilo. Se ne producono quasi centocinquanta milioni di chili e sono dunque centocinquanta miliardi.

Avevamo visto le fattorie di alta collina dove per un’arte antica si produce il caciocavallo, ogni fattoria ha uno stanzone immenso, che sembra un laboratorio da stregone, con il fuoco che brucia ininterrottamente dentro un immenso camino, e storte, alambicchi, calderoni, budella di vitellini uccisi per estrarne il caglio, mastelli di ricotta fumigante, il segreto geloso delle carature e del peso, la temperatura giusta del siero, persino l’istante esatto in cui il vitellino va ucciso dopo che ha succhiato il latte materno, e infine le pezze rotonde del caciocavallo l’una sull’altra al centro della stanza, anch’esse con il colore giallo e caldo dell’oro.

Si vende quattromila lire al chilo. Quarantamila quintali di produzione fanno sedici miliardi. Ora scendevo le ultime vallate prima del mare, dove si estendono gli allevamenti più grandi. A perdita d’occhio distese di fieno segnate da muri bianchi, le fattorie arroccate sulla cima delle colline come fortini, e per tutta la campagna decine di migliaia di animali, ogni tanto in mezzo alle mandrie passava un galoppo veloce di cavalli a torma, splendide bestie allevate solo per il piacere di cavalcare e per l’esportazione in continente, poiché qui nessuno mangia carne di cavallo.

Centoquarantamila capi di bestiame, a peso vivo sono 280 mila quintali di carne, quasi novanta miliardi di lire. Per cause di sciopero in provincia di Ragusa, nell’ultimo anno, si sono perdute duecentomila ore di lavoro nel settore dell’industria, quasi centomila nel settore impiegatizio e solo mille ore nell’agricoltura. Sono emigrate solo cinquecento persone in tutto il territorio.

Dal solo paese di Licata, in provincia di Agrigento, sono emigrati per disperazione, dodicimila esseri umani. Ecco, scendevo dunque verso i grandi allevamenti per capire veramente quale fosse il miracolo di questa provincia così antica e diversa, così avulsa dal dramma siciliano, come se, oltrepassata quella amabile catena dei monti Iblei, tutta la dimensione della vita si modificasse, ed anche la natura della gente, i suoi bisogni umani. E come tutto questo potesse esistere, cioè una piccola società immutabile e serena, dentro una società più vasta e continuamente violenta e infelice.

Prima del tramonto arrivammo ad una grande fattoria sull’ultima collina prima della costa. Tre grandi caseggiati grigi, l’uno appoggiato all’altro, le finestre piccole, ancora con le feritoie di un tempo, i muri possenti, un grande cancello di ferro nero, l’immenso cortile con le basole bianche.

Duecento capi di bestiame. bovini, maiali, cavalli, due stalle moderne in cui ogni bestia ha il suo spazio preciso, la mangiatoia, l’abbeverata. Cinquanta ettari di terreno tutt’intorno. Il loro capostipite si chiama Diamante ed è l’animale più alto e possente della contrada, un mantello completamente nero, due occhi feroci, non ha un attimo di requie, vibra continuamente, l’hanno dovuto legare fuori dalla stalla perché lì dentro stava spezzando anche la catena per avventarsi sulle femmine, ed anche fuori si scuote e s’infuria, ha continui muggiti di collera, con la testa bassa, come volesse affilarsi le corna contro il muro.

L’allevatore Francesco Corallo, alto, i capelli biondi e grigi, gli stivali, sembra davvero un cow boy di razza scandinava, alla Sterling Hayden, ma sua mo glie Giovanna Bellina, bianca, ampia, malinconica e bruna riconduce subito l’ambiente ad una placida quiete mediterranea. Hanno una sola bambina, che si portano sempre appresso in tutti i lavori della fattoria, la madre sorride: «Una sola figlia ci basta. Qui non c’è molto tempo per allevare anche i bambini!»

Lavorano quindici, diciotto ore al giorno lungo i cinquanta ettari dell’allevamento, spesso dall’alba a mezzanotte con l’aiuto di un solo mezzadro. Producono settanta quintali di formaggio, diecimila litri di latte, mille chili di ricotta e duecento quintali di carne, che, ai prezzi dell’ingrosso, producono un reddito di quasi cento milioni all’anno, con il quale bisogna naturalmente pagare la nafta per le macchine, il mangime per le bestie, il concime, i trasporti, le tasse, il salario del mandriano.

Resta tanto da poter considerare questa piccola famiglia moderatamente ricca. Il prezzo è pesante, cioè tutta la vita insieme alle bestie, con una fatica quotidiana da bestie, senza mai un giorno di riposo, una vacanza, il tempo per capire com’è il mondo e cosa vi accade dentro. Tutto il denaro che si guadagna serve solo a comperare altra terra, altra acqua, altre bestie più alte e vigorose. E così per tutta la vita.

Tutto questo territorio che non ha eguali in tutta la Sicilia, un territorio cioè dove non c’è un povero, nè un disoccupato, è popolato da famiglie come quella di Giuseppe Lauretta, mago del caciocavallo o di Francesco Corallo, famiglie umili e coraggiose, capaci di una terribile pazienza e di un fanatico amore per la terra. Decine di migliaia di famiglie così, quasi fuori dal tempo, certamente fuori dalla tragedia del sud.

E qui con un brivido, sovviene un pensiero feroce: se cioè sia giusto che una razza umana di contadini, anzi più semplicemente una piccola popolazione umana sacrifichi così l’intera esistenza nel lavoro, senza altra conoscenza o allegria o speranza: altre cose, diverse, magari più violente o sconvolgenti, ma che siano altre, nuove, imprevedibili e diano un senso più completo alla vita.

Una risposta, confusa e gioconda ma anche drammatica, ce la dette forse il mandriano, che era il personaggio più vero, Orazio Modica, camicia bianca fuori dalla cinta, un fazzoletto bianco legato sui capelli, un immenso paio di pantaloni, gli scarponi incrostati, un sorriso aggressivo, una voce alta e spavalda, di quello che è abituato a parlare alle bestie e può domarle con un grido, scherza con loro, le prende a calci, si arrabbia, le carezza, piglia a schiaffi anche il toro Diamante.

Sembrava un uomo felice, che avesse capito il senso della vita anche per il futuro: «Un giorno di alcuni anni or sono mi dissi: ora vado in Germania, vediamo che succede! Lavorai sei mesi, in una fattoria. La cosa più bella della Germania erano le donne. Io avevo una vocazione, quando ero soldato facevo l’attendente del signor colonnello e mi passai tutte le cameriere. Come dicono i catanesi: sdirignai! Si figuri perciò in Germania. Ma mia madre mi scriveva ogni settimana, telefonava, attento figlio mio, devi sposare una donna del tuo paese, non ti prendere una di quelle bastarde, non mi fare morire di dolore. Basta, alla fine tornai, cominciai a lavorare in questa azienda come mandriano, mi sono sposato con una del mio paese, ho tre figli.

Questo lavoro mi piace perché le bestie hanno gli stessi dolori e le stesse felicità degli uomini. Certo noi le ammazziamo, ma prima di ammazzarle, è giusto trattarle come creature. Per esempio un toro non funziona più, è fiacco, traballa… coraggio amico mio, ora ti riposi… e intanto uno ne valuta il peso, saranno seicento, settecento chili da vivo, tre quintali e mezzo scuoiato, a tremila lire al chilo, e dunque quasi un milione, va bene, domani si può portare al macello! Uno gli fa una carezza sulle corna, magari un piccolo cazzotto affettuoso. Stasera mangime speciale. Buonanotte vecchio, sei stato bravo, ti sei divertito anche tu! Pazienza…»

Il mandriano Orazio ride. Ha i denti di un pescecane, conosce a memoria tutti i nomi delle bestie dell’allevamento, è capace di diagnosticare un male, aiuta le vacche a partorire, lava i vitellini neonati, sceglie quelli da uccidere per il caglio.

La sua vita è questa: si alza alle quattro del mattino e comincia a radunare le bestie dalla campagna, dove sono state lasciate sciolte e libere per tutta la notte, le va scovando dovunque siano, le conduce nella stalla, comincia la mungitura, raccoglie il latte e lo divide nei recipienti, lega le bestie ognuna al suo posto e colloca i fasci di fieno e mangime. Poi trasporta il latte dentro la fattoria, accende il fuoco per la ricotta, e intanto che il fuoco arde più alto, Orazio spala il concime e lo ammucchia nella campagna, poi abbevera le bestie, mette la ricotta e il caglio sul fuoco, comincia ad impastare la toma per farne una grande pezza di formaggio.

Intanto si sono fatte le due del pomeriggio, il tempo di mangiare, poi bisogna tornare a radunare le bestie, magari nel frattempo piove, c’è un vento che ti fa cadere le orecchie, oppure un sole che spacca le pietre, bisogna stare attenti che il toro copra la giovenca senza farle male, segnare la femmina in modo da ricordarsi chi sia, Nerina, Rosa, Pasqualia, quindi riportare le bestie dentro, legarle, mettere il mangime, ricominciare la mungitura, riaccendere il fuoco, alimentarlo, preparare la ricotta, il formaggio, e già si è fatta l’ora di slegare le bestie per condurle al pascolo notturno perché intanto è arrivata la notte, sono le dieci o le undici di sera, il tempo di cenare e dormire. Il mandriano Orazio ha finito la sua giornata.

Dodicimila lire al giorno di salario. Ogni mese tre giorni di vacanza. Orazio sorride, è contento, gli piace, è giusto, ma c’è qualcosa nella sua risata che non suona, c’è una verità che egli non ha detto, di cui forse non si rende nemmeno conto. Parlando, parlando infine essa si svela: «Io ho tre figli, due maschi e una femmina.

Nessuno di loro dovrà lavorare nella campagna come me! Arrivano alla terza media, perché è giusto che sappiano leggere e scrivere, poi ognuno di loro dovrà scegliersi un mestiere: elettricista, radiotecnico, stagnino. A me gli stagnini sembrano professori di università, bisogna prenotare il loro lavoro, arrivano con la borsetta di cuoio e l’aiutante, per cortesia ci sarebbe una tazzina di caffè, si fumano anche una sigaretta, intanto con le nocche delle dita danno colpettini leggeri sulle tubature, sui lavandini, o sullo scarico del cesso.

Fanno sospiri, questa è una cosa grave, lavorano per un’ora con la faccia preoccupata, guardando l’orologio, svitano, avvitano, sturano, tirano la catena, tutto a posto, signora per piacere quindicimila lire, ventimila lire… Mi sembrano, come si chiamava quello…? Frugoni, Condorelli…! No, no, i miei figli non dovranno lavorare mai nella campagna. Io sono felice, ma certe volte mi guardo nello specchio, tutti questi peli grigi, il fazzoletto legato sulla testa, la lingua amara, le ossa cominciano a farmi male…»

Il mandriano Orazio ride ma fa un gesto violento, sfottente, come se volesse vibrarsi un cazzotto in faccia: «Sa perché la razza modicana bovina è famosa? Perché è paziente e forte, sopravvive a tutto, al freddo, al gelo, al caldo, alla siccità, puoi tenere le bestie all’addiaccio in mezzo alla campagna per tutto l’anno ed esse si cercano l’erba in mezzo alle pietre e l’acqua nelle pozzanghere. E danno egualmente un po’ di latte. E sopravvivono a tutto!

Certo la razza frisona è più pregiata, nemmeno paragone, produce latte per trecento e cinque giorni all’anno, ed è un latte più fine, senza grasso, ma i frisoni sono delicati, debbono stare al caldo, sempre protetti, sempre riparati, senza freddo, senza vento, diomenescansi una corrente d’aria… vogliono mangime prelibato, soffrono di stomaco, non possono affaticarsi, viene una gelata e si ammalano, le stalle debbono essere salotti, vogliono essere lavati, gradiscono anche la musica, sentono una sinfonia che gli piace e fanno il latte più cremoso e saporito.

I bovini modicani campano invece anche allo sbaraglio, la notte vagano per le campagne, stanno pazienti e rassegnati sotto la pioggia, il gelo, la grandine, si contentano di erba o anche di ortiche. Ma sono bestie. Io sono pure di razza modicana, ma sono uomo, creatura umana, eppure anch’io all’acqua e al vento per tutta la vita, campo lo stesso, mi contento. Ma non voglio che i miei figli siano così…»

E di nuovo fa un gesto col pugno in aria, stavolta come se volesse picchiarlo in faccia ai suoi figli che dovessero disobbedire. «Se non avessi fatto il soldato per un anno e non fossi andato per sei mesi in Germania, che avrei visto della vita…? Certo, ora, risparmiando anche sul pane, potrei affittare anche un pezzo di terra, mi faccio prestare i soldi per comperare tre o quattro bestie, comincio a fare anch’io l’allevatore, adagio adagio, anno dopo anno, ma dovrei portare nella campagna, a lavorare come bestie, anche la mia famiglia. Quando mai…»

Sul volto di Orazio il sorriso è definitivamente scomparso. Il toro cerca di strappare la catena e Orazio gli dà un ceffone, il toro Diamante fa uno sternuto di paura e lo fissa con gli occhi rotondi. «Nossignore, nemmeno mia figlia dovrà lavorare nella campagna, anzi non voglio che mia figlia lavori mai. Terza media e poi a casa in attesa di sposarsi, fare figli e campare.

Certo dovrà lavorare il marito, altrimenti che merito di maschio ha? Vuole sapere per chi ho votato alle elezioni? Sissignore, io non ho misteri, io ho dato sempre il mio voto ai lavoratori senza offesa al partito comunista. Dice che i comunisti non la ragionano come me, che anche le donne debbono lavorare, essere indipendenti. Signore mio, io do il voto ai comunisti perché difendono il valore dell’essere umano, ma non possiamo essere d’accordo su tutto, la testa è mia, anche i pensieri che ci sono dentro sono miei. E il mio pensiero è che nessuno dei miei figli dovrà lavorare nella campagna. Mai!»

Decine di migliaia di famiglie così in questo territorio che scende dagli Iblei fino al mare ed ha i suoi vertici in Ragusa, Modica, Chiaramonte, Ispica, Vittoria, Comiso, paesi splendidi, di pietra bianca, con gli antichi palazzi intatti, le chiese del fantastico Seicento, le piazze costruite su misura di uomo e per l’incontro quotidiano fra gli uomini, le campagne dolci che scendono fra piccole montagne di pietra candida, un territorio che è diverso da ogni altro territorio della Sicilia.

Ma quando questa generazione starà per sparire, ed i suoi figli saranno diventati ragionieri, maestri, stagnini, geometri, radiotecnici, infermieri? E possibile pensare che ci siano sempre centinaia di migliaia di esseri umani disposti a levarsi all’alba e faticare insieme alle bestie, più delle bestie, per quindici, sedici, diciotto ore, all’acqua e al vento, in mezzo al letame, aiutare il toro a coprire le giovenche, aiutare le vacche a partorire i vitellini, scegliere i vitellini per uccidere i più magri, spalare concime, ammucchiare erba e fieno, dall’alba alla notte, sempre, sempre, tre giorni di vacanza al mese, senza sapere mai, senza conoscere mai cosa sta accadendo nel mondo oltre quella catena dolce degli Iblei, e quali collere e spaventi e violenza, e pensieri, e idee, e tecniche si addensino oltre quella linea esile di montagne: un giorno si spalancherà un varco e traboccheranno in queste valli e tutto sarà sconvolto e travolto.

Nel discorso ridente del mandriano Orazio c’è una specie di imminenza: cose che dovranno fatalmente accadere e questa piccola, perfetta società contadina non ha mai avuto modo di intuirle, chiusa nel suo ostinato sacrificio, nel suo dignitoso benessere; una minuscola società distaccata da tutto, e dentro la quale l’ambizione più alta di un uomo, che ha sacrificato la sua vita alla terra, è quella di avere i figli maestri o geometri. Ora è notte.

Sul grande porticato appare la sagoma massiccia e trafelata del signor Cilia, funzionario dell’associazione allevatori che è venuto a prenderci in macchina. Passando dinnanzi a quel giantesco toro inquieto ardisce una carezza sul muso: «E, caro Diamante, mala tempora!» Ha partecipato ad un corso sulla fecondazione artificiale dei bovini e sembra emozionato.

Racconta: «Con una sola eiaculazione di toro si potranno ingravidare quasi mille giovenche. Si stanno studiando tecniche moderne per ottenere una eiaculazione quanto più spontanea da parte del toro. No, niente femmine, una specie di sagoma di legno costruita a foggia di giovenca, il toro non avrà nemmeno il tempo di capire bene: oh guarda che bella femmina! Ci sono raccoglitori automatici, tutto automatico, non si perde nemmeno una goccia!»

Così inganneranno anche te, povero toro, nelle campagne ci sono centinaia di splendide giovenche vogliose, e invece ti daranno un trespolo di legno camuffato da vacca, ci metteranno anche gli odori della femmina fatti con una composizione chimica, ti fregheranno anche in questo, chanel numero cinque bovino; magari un giorno o l’altro, sotto il tuo impeto, quel trespolo si sfascia e tu povero toro ti spezzi una gamba, non servi più, come fa un toro a cavalcare con una gamba spezzata.

Ti daranno doppia razione di mangime, una carezza, buonanotte vecchio: l’indomani ti caricheranno su uno di quei camion alti e tristi come cellulari e ti porteranno in un posto dove ci sono gli esecutori specializzati, pistole a chiodo, non si spreca nemmeno il proiettile. Penserai: vuoi vedere che bella giovenca mi hanno portato di là, passi quella porta, e invece tic, proprio un buchino al centro del cervello.

Addio toro, da qualche altra parte della terra almeno muoiono nell’arena, con mille occhi di donne pieni di tenerissimo odio. Anche per te, vecchio toro modicano, il lamento di cento chitarre andaluse…

© Riproduzione riservata