Se Lucky abbia davvero spianato la strada al generale George Smith Patton, partecipando alla selezione degli uomini d’onore di riferimento dell’Office of Strategic Services (Oss) sull’Isola, è materia controversa. Di sicuro, per i servigi resi alla marina degli Stati Uniti d’America Lucky Luciano, nonostante una condanna a cinquant’anni di carcere, fu liberato. A patto che tornasse in Italia...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Poche settimane dopo Pearl Harbor gli U-Boot tedeschi scorrazzavano nell’Atlantico. Al porto di New York una teoria di sabotaggi alle navi alla fonda aveva messo in allarme la sicurezza Usa. Si temeva che fosse opera di spie naziste, simpatizzanti del Reich infiltrati tra i lavoratori della baia, in larga parte sotto il controllo delle famiglie di Cosa Nostra. O almeno così faceva comodo credere.
Gli agenti del servizio segreto della marina degli Stati Uniti decisero che era il tempo di una visita in carcere a Salvatore Lucania, da Lercara Friddi, l’inventore della commissione mafiosa americana, per tutti ormai da quindici anni solo Lucky Luciano.
Era il 1942, e Lucky, il fortunato perché sopravvissuto a un taglio alla gola tanto profondo da far credere all’assassino di averlo ucciso, aveva già quasi scontato dieci dei cinquant’anni inflittigli per sfruttamento della prostituzione. Dalla prigione di Sing Sing lo avevano trasferito al Clinton Correctional Facility, ovvero Dannemora, Stato di New York. “La piccola Siberia”, la chiamavano, a dire di quanto fosse ameno il luogo.
Raccontano che anche per la stella del sindacato nazionale del crimine laggiù la vita non fosse affatto facile. Gli agi della suite 39C del Waldorf Astoria erano un pallido ricordo, nonostante un paio di reclusi come servitù, i pasti cucinati per lui e un flusso costante di visite che avevano il merito di far correre in fretta le ore e gli affari lasciati in sospeso.
Il perché di quella visita aveva una ragione precisa. Su quei sabotaggi sembrava esserci lo zampino degli uomini di Lucky Luciano e del suo braccio destro Vito Genovese. Per i Servizi americani, dunque, c’era più di un sospetto per bussare alla cella del boss e gettare le basi di quella che nelle carte – destinate a restare sepolte per un po’ – era l’operazione “Underworld”.
L’ambasciata che annunciava la visita arrivò per il tramite di un avvocato che curava Lucky e il suo socio ebreo Meyer Lansky, conosciuto sui banchi di scuola, dove entrambi avevano potuto affinare la sottile arte del taglieggiamento.
Dopo i primi contatti, Lucky ottenne subito qualcosa: si lasciò alle spalle “la piccola Siberia” per il “Country Club”, il Great Meadow Correctional Facility, a Comstock, vicino ad Albany.
Anche i Servizi ottennero ciò che volevano: nella rada tornò la calma, niente più sabotaggi. I rifornimenti dall’America all’Europa in guerra furono ripristinati nella totale tranquillità. I bravi ragazzi di Joseph Lanza, il palermitano re del mercato del pesce di Fulton, e di Albert “Mad Hatter” Anastasia, il calabrese, il boia di Lucky, avevano fatto un buon lavoro mettendosi a disposizione del comandante Charles R. Haffenden. Erano diventati patrioti. E Anastasia, sopra la divisa da killer, aveva addirittura indossato quella da sergente. Una scelta che gli era valsa la cittadinanza.
Da lì a un anno, il 10 luglio del 1943, gli americani sbarcarono in Sicilia. Se Lucky abbia davvero spianato la strada al generale George Smith Patton, partecipando alla selezione degli uomini d’onore di riferimento dell’Office of Strategic Services (Oss) sull’Isola, è materia controversa. Di sicuro, per i servigi resi alla marina degli Stati Uniti d’America Lucky Luciano, quattro anni dopo, era già un uomo libero. A patto che tornasse in Italia. Girò tra Napoli e Santa Marinella con frequenti puntate in Sicilia. Ma non restò a lungo. Ottenne presto un altro beneficio: la possibilità di espatriare. E utilizzò subito quell’opportunità per dare un nuovo slancio agli affari: andò a Cuba a organizzare il narcotraffico e si stabilì definitivamente nel Belpaese solo nel 1947. Dieci anni dopo, dal 12 al 16 ottobre del 1957, partecipò al summit all’Hotel des Palmes di Palermo che pianificò il traffico internazionale degli stupefacenti.
Lo fece dirigendo i lavori della neonata commissione di Cosa Nostra, ormai in asse con quella americana che si riunì un mese dopo ad Apalachin, nello Stato di New York
«Meglio avere uno sbirro amico che un amico sbirro».
Così dicono gli uomini d’onore. La storia ha finora dato loro sempre ragione. E Lucky Luciano non aveva contraddetto l’antico adagio. Perché non è vero che con gli sbirri non si parla, non è vero che con loro non si tratta. Ci si incontra al crocevia dei destini degli uni e degli altri. Una caserma, il tribunale, la strada, un salotto. O una cella. Per questo, forse, non era neppure necessario, come accadde molti anni dopo in Italia, fissare un protocollo, il protocollo Farfalla, per stabilire che sbirri e padreterni potessero parlarsi perfino in carcere. Semplicemente perché è sempre accaduto.
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