Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Muovendo dalla posizione di Marcello Dell'Utri, si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione.

Al di là del pieno coinvolgimento di Dell'Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello (in particolare grazie all’intercettazione che ha coinvolto l’avv. Pittelli), non si ha prova che a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offese e di presidente del Consiglio per ottenere

L’adempimento, appunto sotto la minaccia mafìosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell'Utri nella precedente campagna elettorale. Non risulta provato che oltre alla interlocuzione Mangano/Dell'Utri vi sia stata una interlocuzione di Dell'Utri con Silvio Berlusconi su questa tematica, tanto meno dopo l’insediamento del governo Berlusconi, dovendo al riguardo ribadire, come fatto nei paragrafi che precedono (ed ai quali continua a farsi rinvio), la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al governo della Repubblica soltanto questa capace di integrare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 338 c.p. sotto il terribile ricatto della ripresa (o della prosecuzione) della stagione stragista che aveva insanguinato gli anni 1992 e 1993.

Difetta la prova che Dell'Utri, per fornire le informazioni pur da lui trasmesse in anteprima agli uomini di Cosa Nostra, in particolare a Vittorio Mangano, su certe perfino “segrete” riforme normative (in specie per quanto riguarda il decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 con la sua “subdola” modifica che riguardava i limiti dell’arresto anche per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.), si sia dovuto rivolgere al presidente del Consiglio allora in carica e non, invece, a qualche altro esponente di vertice di Forza Italia o fidato componente dell’ufficio legislativo di quel partito egualmente a conoscenza dei particolari tecnici di questi propositi normativi che si ponevano, comunque, in linea con un certo orientamento politico di tipo garantista perfino connaturale a quello stesso partito.

Analogamente si sconoscono le modalità di un’eventuale interlocuzione sul tema tra Dell'Utri e Silvio Berlusconi non potendosi neppure escludere scenari in cui eventuali dialoghi (sempre se davvero intervenuti e provati) si siano arrestati ad un livello embrionale in cui l’imputato non aveva neppure l’interesse o la necessità di fare riferimento all’antefatto nè, tanto meno, alla minaccia mafiosa/stragista, nemmeno in forma implicita, velata o subdola, ben potendo assumere le notizie di interesse semplicemente esplorando i percorsi normativi più significativi che stavano prendendo corpo. A voler ritenere, anche oltre i dati concretamente provati, che via sia stata un’interlocuzione su queste tematiche con Berlusconi dopo la sua nomina presidenziale, non è comunque possibile ricostruire il tenore di questi dialoghi.

Si è anche avuto modo di evidenziare che l’indice presuntivo della conoscenza da parte di Berlusconi delle richieste mafiose, legato al fatto che Dell'Utri ha informato in anteprima Mangano (e tramite lui gli altri sodali mafiosi) di certi progetti di riforma che erano all’esame o prossimi al varo su iniziativa governativa, perde la sua efficacia persuasiva, non solo perché rimangono inesplorabili i concreti percorsi comunicativi che hanno consentito a Dell'Utri di acquisire simili informazioni (per quanto in quel momento segrete all’opinione pubblica), ma anche perché ipotetici dialoghi su questa tematica con Berlusconi possono aver assunto connotati che restano indecifrabili, particolarmente perché non c’era neppure la necessità di addomesticare il percorso normativo.

Una prova che non discende né si può ricavare neppure dalla regola del cui prodest, riferita a vantaggi che il destinatario finale dell’interlocuzione poteva ottenere in termini di risultati elettorali, poiché, non solo non si ha prova del grado di conoscenza che Berlusconi avesse degli accordi preelettorali con i vari personaggi della criminalità organizzata (tanto dell’ala stragista quanto dell’ala che alla prima si contrapponeva in Cosa Nostra), ma soprattutto perché questi accordi sono intervenuti (come è evidente) allorché il governo Berlusconi non era in carica e, quindi, il reato oggetto di contestazione non poteva essere integrato. Senza comunque perdere di vista il fatto che né Dell'Utri né tanto meno Berlusconi avrebbero tratto vantaggio dalla minaccia stragista che, anzi, vedeva Silvio Berlusconi, a quel punto in qualità di componente del governo, come parte offesa.

Vero è che se riferito all’accordo preelettorale la minaccia poteva connotarsi come la resa del conto per all’aiuto elettorale offerto da Cosa Nostra, ma questi elementi coinvolgono semmai Dell'Utri e le sue spregiudicate trarne con l’organizzazione mafiosa e non anche Berlusconi (perlomeno di un coinvolgimento di questo tipo difetta la prova).

Dovendo in ogni caso ribadire il concetto secondo cui, in assenza della prova diretta dei dialoghi tra Dell'Utri ed il presidente Berlusconi, deve farsi ricorso ad un criterio inevitabilmente logico, anzi di alta probabilità logica, così da poter ritenere che, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’unica soluzione sia quella e soltanto quella che porti a ritenere dimostrata, con elevato grado di credibilità razionale, la veicolazione della minaccia al governo.

Dubitare è un obbligo giuridico imposto dal sistema processuale che, nel caso di specie, non si traduce nella necessità di dover semplicemente confutare la logicità della tesi seguita in primo grado, ma di verificare se questa conduca concretamente e con certezza alla prova dei fatti in assenza di alternative egualmente logiche e razionali; e, come già si è avuto modo di anticipare, proprio in questo caso il rischio di incorrere nel classico vizio della fallacia dell’affermazione del conseguente rimane altissimo.

La prova della colpevolezza non può limitarsi alla corrispondenza di taluni dati ma deve trovare solido fondamento, secondo un percorso esattamente inverso, sugli elementi disponibili per ottenere da essi dei sicuri (chiari, precisi e concordanti) indici per addivenire in concreto alla dimostrazione della tesi accusatoria.

Una prova che difetta in termini di certezza ( “al di là di ogni ragionevole dubbio”) così da portare a ritenere, ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p., che Marcello Dell'Utri, nonostante il suo pesante coinvolgimento nella fase preelettorale ed anche postelettorale (con delle azioni tali da assumere astrattamente rilievo per una differente fattispecie di reato, tuttavia coperta dall’intangibile giudicato assolutorio di cui si è detto intervenuto per i fatti di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. successivi al 1992) non abbia concorso nella minaccia al Corpo politico dello Stato. Non si ha prova, in altri termini, che questo imputato, nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto, abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano.

All’assoluzione di Marcello Dell'Utri “per non aver commesso il fatto” di cui alla residua imputazione sub A) consegue, oltre alla revoca delle statuizioni civili a carico di questo appellante, anche la perdita di efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio applicata nei suoi riguardi nel corso del presente giudizio di appello.

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