Il sociologo Pino Arlacchi, amico di Giovanni Falcone, rispondeva così alle domande dei pm di Caltanissetta sul contenuto di un’intervista: «Era mia convinzione che effettivamente Cosa Nostra nell’eseguire le stragi di Capaci e via D’Amelio avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle istituzioni, soprattutto del Sisde, che si trovavano in quel momento in difficoltà, poiché stavano per venir meno gli storici referenti di carattere politico...»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per circa un mese pubblichiamo ampi stralci del libro “Sbirri e padreterni” (Laterza Editore, 2016) di Enrico Bellavia, Vicedirettore de “L’Espresso”, un saggio che racconta le intese scellerate tra pezzi di istituzioni e il crimine organizzato.
Cosa Nostra odiava il magistrato, ma in tanti avrebbero voluto vederlo morto e gli stessi suoi colleghi non mancavano occasione per denigrarlo o per delegittimarlo impedendogli di portare avanti il suo progetto. Quando si trattò di concorrere per il posto di capo dell’Ufficio istruzione gli fu risposto che bisognava privilegiare il criterio dell’anzianità anziché quello del merito.
Era inviso ai magistrati preoccupati che il suo modo di procedere decretasse la fine della pacifica coesistenza tra Stato e mafia che nelle aule di giustizia aveva avuto modo di concretizzarsi con assoluzioni in massa e interpretazioni del diritto, corrette sul piano formale e decisamente ingiuste sul piano sostanziale. Una giurisprudenza di favore che aveva consolidato il mito dell’impunità di Cosa Nostra.
La sentenza ha dimostrato che il presidente della prima sezione della Cassazione, Corrado Carnevale, non è stato corrotto dai boss per arrivare ai verdetti di assoluzione. Gli uomini d’onore però facevano comunque grande affidamento sul suo approccio ai giudizi di mafia che gli aveva procurato l’appellativo di “ammazzasentenze”.
E lo stesso Carnevale non nascondeva, pubblicamente e in privato, il proprio disprezzo per il pool antimafia di Palermo tanto da abbandonarsi a giudizi pesantissimi in una conversazione intercettata finita agli atti del suo processo nella quale definisce Falcone e Borsellino, già morti, i Dioscuri. Prima di coltivare un piano di morte nei confronti di Falcone, chi progettava il suo assassinio era intenzionato a ridimensionarlo, a fare in modo che si ritirasse dalla scena.
L’omicidio era solo la soluzione finale e nel tempo, come avremo modo di vedere, furono sperimentate varie strategie, rivelatesi infruttuose. Uno degli amici di Falcone, il pm del maxiprocesso Giuseppe Ayala, oggi in pensione dopo un periodo da parlamentare e da giudice civile a L’Aquila, ritiene che una delle maggiori concause della fine di Falcone fu la sua ostinata determinazione nell’instaurare il principio della rotazione nell’attribuzione dei processi di mafia in Cassazione.
Fino a quando Falcone non intervenne direttamente presso il primo presidente della Suprema Corte, Antonio Brancaccio, l’attribuzione dei processi era automatica: finivano sempre alla sezione di Carnevale. Facendo leva sul proprio ruolo al ministero dove era giunto nel 1991, al fianco del guardasigilli Claudio Martelli, in vista dell’arrivo in Cassazione del primo maxiprocesso, Falcone ottenne che Brancaccio stabilisse un’assegnazione casuale, a rotazione tra le varie sezioni.
L’intervento fu percepito da Cosa Nostra come l’ennesima dimostrazione che anche da Roma Falcone fosse perfettamente in grado di intervenire sui processi di mafia e sul corso della giustizia. Per i suoi stessi colleghi ai piani alti della giurisdizione quel colpo di mano corrispondeva a un terremoto che sottraeva definitivamente ogni spazio di discrezionalità e di potere. Il Palazzaccio finiva sotto osservazione e ciò che aveva re so possibile il perpetuarsi dell’impunità di Cosa Nostra, con le sottili interpretazioni in punto di diritto per giustificare l’inattesa apertura di gabbie che avrebbero dovuto rimanere chiuse, tramontava definitivamente.
Sono sicuro che se Falcone si fosse ritirato al ministero, ritagliandosi un ruolo comodo, e avesse abbandonato la prima linea, non avrebbero avuto alcun interesse a colpirlo e certamente non in quel modo e in quel preciso momento. Invece il suo ruolo era visto come una minaccia non soltanto per gli affari presenti ma anche per quelli futuri dell’organizzazione.
Falcone dava l’idea di volere cambiare tutto, di volere intervenire sul sistema giudiziario, di distruggere alle fondamenta Cosa Nostra e la struttura di potere istituzionale che la sosteneva, di non avvalersi più degli investigatori e degli uomini dei Servizi che avevano garantito una convivenza tra noi e loro, e questo era inaccettabile.
Cosa Nostra sa aspettare e non agisce mai d’impulso. Lo ha fatto sobbarcandosi il peso delle indagini per il primo maxi processo e poi, quando arrivò la sentenza di primo grado, puntando tutto sull’appello. Già in secondo grado alcune condanne furono cancellate e dalla Cassazione ci si aspettava molto. Ma quando anche in Cassazione le cose andarono male la situazione precipitò.
Gli amici di Cosa Nostra allargavano le braccia, dimostravano di non potere fare più molto, dicevano di avere le mani legate e questo innescò in Riina la volontà di dimostrare che l’organizzazione fosse forte e viva e che non avrebbe permesso a nessuno di distruggerla. In questo, i suoi interessi convergevano perfettamente con chi, dentro le istituzioni, coltivava la preoccupazione di essere spazzato via dalla ventata di novità rappresentata dal nuovo corso. Per la mafia e per chi la appoggiò fu una scelta folle e suicida.
Il maxiprocesso aveva stabilito che il teorema Buscetta – nessun delitto eccellente, nessuna eliminazione di uomo d’onore può avvenire senza il consenso della commissione mafiosa – era diventato un paradigma giudiziario.
La collaborazione con la giustizia di Francesco Marino Mannoia «aveva aggiornato l’organigramma della commissione»: di fatto, decidendo di eliminare Falcone in Sicilia e con una strage, era come mettere il bollo sull’eccidio, sacrificando i capicommissione detenuti. Indubbiamente un’opportunità per i latitanti che avrebbero potuto godere del vantaggio di aver messo fuori gioco i loro pari grado in cella. Per questo, sebbene deliberata fin dal 1983, l’eliminazione di Falcone fu decisa da un direttorio ristretto dei capi di Cosa Nostra. Quelli liberi, non tutti peraltro, e con i reclusi che quella decisione subirono. È quella che Rosalba Di Gregorio, avvocato del boss Pietro Aglieri, ha definito «la complicazione del progetto».
Difficilmente lo Stato avrebbe potuto tacere di fronte a un’aggressione frontale, e anche i più morbidi dovettero fare la faccia da duri. In tanti capirono che non era più il tempo delle prese in giro, dei vedremo e faremo, non c’era più nulla da promettere. Ma le scelte del 1992 non furono che l’atto finale di una strategia iniziata almeno quattro anni prima, segnando un punto di contatto, l’ennesimo, tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, accomunati da un’identica preoccupazione: Falcone sarebbe arrivato a colpire più in alto.
Liquidata l’ala militare, aveva infatti già messo sotto osservazione i livelli superiori dell’organizzazione e aveva ben chiaro il quadro, avendo individuato chi, nello Stato, rappresentava il più formidabile alleato dei boss. I padrini temeva no, ma più di loro ad aver paura erano i colletti bianchi.
Cosa credete? Tutti quelli che per anni erano andati a braccetto con Cosa Nostra, dai politici agli investigatori, passando per i magi strati, potevano davvero starsene con le mani in mano ad aspettare che li arrestassero? Dopo la morte di Falcone, nel dicembre del 1992, toccò fare quella fine a Bruno Contrada. Ma immaginate davvero che Contrada fosse il solo? Era il numero tre dei servizi segreti italiani, aveva condotto tutta la sua carriera in Sicilia, era il punto di riferimento dell’Alto commissariato alla mafia, era l’uomo del capo della polizia in Sicilia. Solo lui era il traditore? Solo lui aveva fatto il doppio gioco? Troppo facile e troppo comodo.
Di Contrada io sapevo che era amico di Riccobono e Bontate. Ma non agiva da solo, era coperto dai suoi superiori, a cominciare dall’alto commissario Emanuele De Francesco, che non potevano non sapere. E così per molti altri la cui carriera era stata decisa a tavolino grazie ai rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, gli uomini che facevano da cerniera tra Cosa Nostra e la politica.
L’11 settembre del 1999, sentito dai magistrati, il sociologo Pino Arlacchi, anche lui amico di Giovanni Falcone, risponde va così alle domande dei pm di Caltanissetta sul contenuto di un’intervista rilasciata poco tempo prima a Francesco La Licata della «Stampa»: «Era mia convinzione che effettivamente Cosa Nostra nell’eseguire le stragi di Capaci e via D’Amelio avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle istituzioni, soprattutto del Sisde, che si trovavano in quel momento in difficoltà, poiché stavano per venir meno gli storici referenti di carattere politico ed avevano, pertanto, per così dire, “cavalcato” la reazione comunque autonoma di Cosa Nostra, pilotandola per asservire allo scopo di riacquisire quella centralità che avevano avuto nel passato.
Si trattava di un’analisi – quella delle difficoltà in cui si trovavano questi ambienti istituzionali in quel periodo – che era condivisa anche dal dottor Falcone e dal dottor Borsellino. Difficoltà che nascevano dall’abolizione dell’Alto commissariato, che aveva sempre costituito il terreno fertile di questi soggetti, e dalla perdita di potere della parte politica che li aveva sempre garantiti. Faccio riferimento, in particolar modo, allorquando parlo di ambienti istituzionali, al gruppo del Sisde che aveva come punto di riferimento il dottor Contrada, ed anche qualche gruppo appartenente all’Arma dei carabinieri che aveva nell’allora colonnello Mori il punto di riferimento.
Il colonnello Mori e il dottor Contrada mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione col dottor De Gennaro. Lo stesso non condivideva il metodo con il quale il colonnello Mori agiva in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un’azione che definirei poco trasparente. Preciso, tuttavia, che il giudizio su Mori e sui soggetti allo stesso vicini non era così negativo come quello che si aveva su Contrada, che ritenevamo davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi».
Per i magistrati nisseni, che riportano integralmente l’audizione di Arlacchi nella richiesta di misura cautelare per le nuove indagini sulla strage di via D’Amelio, si tratta di «mere deduzioni di uno studioso», ma l’interesse per il quadro delineato rimane intatto.
Dunque, da due diverse prospettive, tra la fine degli anni Ottanta e il 1992, il punto convergente sembra essere quello di uno scontro tra apparati: il morente Alto commissariato per la Sicilia, che al crepuscolo di una stagione politica sta per cessare, la nascente Direzione nazionale antimafia (Dna) – vale a dire il coordinamento unico delle indagini – e la Dia che è la sua articolazione investigativa, che vedranno la luce subito dopo le stragi del 1992. Dna e Dia sono creature di Falcone, immaginate nei suoi anni palermitani, edificate nella sua stagione interrotta al ministero con Claudio Martelli.
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