Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Ecco i primi nitidi ricordi, che risalgono dal fondo della mia memoria. Avevo quattro o cinque anni.

Mia madre deve essere da qualche parte in cucina e mio fratello Filippo forse è giù in giardino, a giocare con la nonna o la zia.

Abitavamo l’appartamento al piano di sopra della casa dei nonni materni, una villetta del quartiere Matteotti, costruita negli anni Trenta, nel bel mezzo di agrumeti, nell’allora periferia orientale di Palermo. Nonna Carmelina ha avuto un ruolo importante nell’educazione mia e di mio fratello. Papà e mamma lavoravano e lei era l’adulto di riferimento a casa, dato che abitavamo al piano di sopra di casa sua. Zia Agata era la più giovane dei figli Zacco, dodici anni meno di mia madre ed undici in più di Filippo. Ancora non sposata, viveva con la nonna.

Un paio d’anni dopo, la stessa cucina fu teatro di uno di quegli ordinari contrasti tra genitori e figli. Era pomeriggio e stavo con mia madre e mia nonna e la scena mi vedeva, al centro, protestare perché era stato opposto un no ad una mia richiesta o, se preferite, un capriccio. Come reazione minacciai di andarmene da mio padre a raccontargli del torto subito.

Nella scena successiva sono sul marciapiede, deciso a raggiungere lo scopo.

Sapevo, più o meno, dove lavorasse mio padre, ma preferii fermarmi al negozio di frutta e verdura a due passi da casa, per chiedere se mi potessero accompagnare da lui. Il fruttivendolo, che conoscevo, mi invitò a sedermi e ad aspettare il ritorno del garzone, non più giovane né troppo svelto, e mi rassicurò dicendomi che ci avrebbe pensato lui, dopo averlo seguito nel giro delle consegne, ad accompagnarmi da papà. Fatto sta che, alla fine del pomeriggio, il garzone mi riportò a casa. Mamma, accortasi della fuga, aveva telefonato a mio padre, che non vedendomi arrivare era tornato dal lavoro, nella speranza di incontrarmi per strada. Nel frattempo, erano stati avvertiti carabinieri e polizia, che mi stavano cercando. Corsi verso mio padre che mi accolse sollevandomi e abbracciandomi, insieme a mia madre. Disse che avevo fatto una cosa pericolosa e che era servita solo a far prendere un grosso spavento a tutti quanti. Mi fece promettere che non l’avrei mai più fatto, per poi concludere, ridendo, che non era stata una grande idea, quella di rivolgermi al fruttivendolo.

La decisione di mio padre di tornare in Sicilia affondava le sue ragioni nell’origine del suo impegno a fianco del popolo siciliano nella lotta per liberarsi dalla condizione di sottosviluppo e subalternità quando, giovane studente universitario, aveva deciso di aderire al PCI.

Così racconta nel suo libro Comunisti e movimento contadino in Sicilia quegli anni in cui matura il suo interesse per la giustizia sociale e combatte per i diritti dei più deboli e bisognosi, contro lo sfruttamento dei ricchissimi proprietari terrieri.

Al partito mi ero iscritto nell’autunno del ’45, negli stessi giorni in cui mi ero iscritto all’università. La scelta fu certamente influenzata dal tipo di famiglia nella quale ero cresciuto. Provenivo da una borgata di Palermo che a quell’epoca sembrava un paese lontano; si pensi che nel piccolo villaggio dove io sono nato, fino all’età di otto anni, non avevamo la luce elettrica, si studiava a lume di candela o a petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare a prenderla quasi a un chilometro di distanza. I braccianti di quella borgata, la domenica mattina, quando si ripulivano e andavano in città dicevano: “Vaiu a Palermu”, come se andassero in una città lontana.

Avevo cominciato la mia attività politica nella borgata dove sono nato. Dopo aver costituito la sezione del partito e contribuito a crearne altre attorno, avevo scoperto che c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti e, quindi, mi ero rivolto alla Federterra.

Quando si era iscritto alla facoltà di Ingegneria, mio padre non aveva ancora compiuto 18 anni. Era stato uno studente precoce e amava molto lo studio. Non so se immaginasse, quando varcò l’ingresso della sede della Federterra, che quel giorno avrebbe impresso una svolta alla sua vita.

Non sarebbe stato più soltanto un attivista, avrebbe cominciato ad assumersi impegni e responsabilità. Non so se lo avesse previsto, certo era quello che voleva. Diventò funzionario della Federterra, poi responsabile giovanile della CGIL e quindi responsabile della commissione giovanile regionale del PCI, in quel periodo non esisteva un’organizzazione giovanile di partito. Successivamente, Pancrazio De Pasquale, segretario della federazione comunista di Palermo, col quale strinse un rapporto umano e politico molto profondo e duraturo, gli chiese di lavorare con lui in una segreteria formata da cinque giovani che, messi insieme, superavano di poco il secolo di vita.

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