Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Un gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo e tentò di strappare le bandiere dalle mani delle donne.

Queste reagirono con vigore e ne nacque un tafferuglio. Partì una sassaiola verso i carabinieri e il commissario Panico diede ordine di sparare. I contadini si dispersero e rimase a terra il bracciante Salvatore Catalano. Un proiettile lo aveva colpito alla spina dorsale, rendendolo invalido per tutta la vita. Mio padre andava a trovarlo ogni volta che poteva e finché ha potuto. Gli scontri ripresero e si svilupparono con violenza.

Mio padre raccontava di aver impedito ad un gruppo di contadini di uccidere a colpi di pala un carabiniere. Un maresciallo di polizia era stato catturato, gli era stata tolta la pistola e stava per essere denudato, se mio padre non fosse intervenuto e avesse convinto i contadini a restituirgli la divisa e a liberarlo. Mantenendo la necessaria lucidità, si rivolgeva con autorità ai contadini dicendo loro che carabinieri e poliziotti non erano i loro nemici; mentre lo erano i grandi proprietari terrieri, i nobili latifondisti, che volevano la repressione e lo scontro.

Il suo comportamento fu fondamentale per evitare che i contadini uccidessero o mutilassero gli agenti. Le cariche della polizia continuavano. Mio padre venne fermato, insieme a centinaia di contadini, e fatto salire su un camion. Giunse ammanettato nella piazza di Bisacquino, quando su quel camion salì un tenente di polizia, che fece accendere le luci e, puntandogli il dito contro, lo accusò di averlo colpito con un bastone.

Alla smentita di mio padre, il tenente gli sputò addosso e ordinò che gli venissero strette le manette. L’accusa era tentato omicidio.

All’alba dell’undici marzo 1950 Pio La Torre fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré agosto 1951.

Del periodo del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito, padre del figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per sé e per mio padre, di dover piegarsi a quei piccoli ricatti del coraggioso e generoso agente di custodia, che chiudeva un occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente.

Le lettere che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate – raccontava mia madre – per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio.

Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto, e sorridevano, come fanno i bambini quando custodiscono segreti condivisi.

Seppur mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali, che ritenevano che il partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la mobilitazione.

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