La quarta puntata del podcast Gattabuia approfondisce la vita dei poliziotti, sottoposti a turni massacranti e continuamente a contatto con una popolazione carceraria sofferente e problematica. Chiedere dignità per i detenuti significa chiederla anche per gli agenti e viceversa
Per fare l’agente penitenziario il titolo di studio richiesto è un diploma di scuola secondaria di primo grado: basta la terza media. Diciotto anni l’età minima per accedere al concorso pubblico, ventisette quella massima. Dopo un corso di sei mesi si entra in servizio, con uno stipendio tra i 1.200 e i 1.300 euro al mese. Questi sono i dati da cui partire per capire il corpo di polizia con il più alto tasso di suicidi, che opera in carceri sovraffollate e fatiscenti e svolge un lavoro usurante, con turni notturni e straordinari che possono raggiungere le diciotto ore continuative al giorno e le settanta ore settimanali, sacrificando anche il giorno di riposo. La quarta puntata di Gattabuia, il podcast di Domani sulla vita quotidiana nelle carceri italiane, si occupa di questi uomini in divisa.
Lavorare in un carcere vuol dire rapportarsi ogni giorno con una popolazione ingabbiata, compressa. Avere a che fare con persone sofferenti, intemperanti, affette da disturbi psichiatrici, da problemi di tossicodipendenza, oppure più semplicemente con persone provenienti da paesi lontani, di cui non si parla la lingua e di cui non si conoscono le abitudini e i codici culturali. Significa rapportarsi ogni giorno con il dolore degli altri e l’aggressività con cui questo dolore si manifesta, senza, in molti casi, averne gli strumenti.
In una conferenza stampa alla Camera dell’ottobre 2024, anno in cui si sono tolti la vita 88 detenuti e 7 agenti penitenziari, Domenico Mastrulli, segretario nazionale del Cosp (Coordinamento sindacale penitenziario), alza la voce e concitato denuncia: «Non si può lavorare con 20mila uomini in meno in un corpo di polizia che ne doveva avere quasi 50mila e che si è ridotto a 25mila unità. Gestiamo la bellezza di 63-64mila detenuti in spazi che dovrebbero occupare 50mila detenuti. Io sto per andare in visita nelle carceri di Venezia: sono carceri dove i quadrupedi delle fogne hanno l’avvento nelle celle e nelle caserme della polizia penitenziaria. Ho citato Venezia ma potrei andare a Napoli Poggioreale, potrei scendere ancora a Palermo Ucciardone, potrei andare sul vecchio carcere di Brescia, a Turi di Bari, potrei andare a Brindisi. Le condizioni di vivibilità delle carceri ricadono drammaticamente sulla povera polizia penitenziaria, dimenticata dalle istituzioni».
Un’unica catena
Il discorso di Mastrulli rivela qualcosa di molto significativo: il carcere è un luogo marginale e reietto, un’istituzione che punisce e toglie dignità. E ciò non ricade solo sui detenuti – fatto che tradisce il dettato costituzionale secondo cui la pena deve essere volta alla rieducazione del condannato – ma ricade allo stesso modo sugli agenti penitenziari: migliaia di uomini (e di donne, in servizio nelle carceri femminili) condannati a lavorare in condizioni drammatiche. Un agente sfinito dai turni massacranti, un agente sottoposto a un grande stress psicofisico, un agente che ha ricevuto scarsa formazione è un agente che mancherà degli strumenti per svolgere il suo lavoro nel modo giusto, nel rispetto della legalità. E in carcere una catena di malumori non è mai solo una catena di malumori. Diventa presto aggressività, violenza, sopraffazione. Diventa in alcuni casi un modus operandi, un’ideologia, un vero e proprio sistema.
Cosa ci dicono le torture e i pestaggi avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, a Trapani, a Modena? E cosa ci direbbero tutti i pestaggi, le violenze, le torture che non sono mai arrivate all’attenzione dell’opinione pubblica, consumate nel buio di celle di isolamento, negli spazi lugubri e omertosi di questo luogo nascosto alla vigilanza dei cittadini?
Ci direbbero che chiedere dignità per i detenuti significa chiederla anche per gli agenti e viceversa. Che ogni violazione dei diritti che riguardi i primi – legittimata nel pensiero comune dal castigo che merita il reato – si risolve in una violazione dei diritti di tutti, soprattutto degli uomini e delle donne che indossano l’infelice divisa della polizia penitenziaria.
Nelle mie visite nei penitenziari italiani ho conosciuto agenti collaborativi e agenti ostili, agenti sinceramente volenterosi di contribuire al percorso trattamentale dei detenuti e agenti invece convinti che «questi non cambiano mai, monnezza erano e monnezza rimarranno».
Non è facile parlare di loro, scriverne, raccontare la complessità di un mestiere delicato che dà il potere di fare tutto il bene e tutto il male. Ho cercato di darne conto nella quarta puntata di Gattabuia (la quinta uscirà giovedì 6 e l’ultima giovedì 13), raccogliendo la testimonianza dell’agente penitenziario e sindacalista Nicola D’Amore, dello scrittore e insegnante Edoardo Albinati, dell’inviato di Domani Nello Trocchia e di Luigi Mastrodonato, collaboratore di questo giornale, dell’ex detenuto Rocco Panetta e della psichiatra Federica Magarini.
Un coro di voci ed esperienze, nel tentativo di avere rispetto del dolore di questi lavoratori oppressi dall’istituzione che pure rappresentano, senza però fare sconti sulle terribili violenze di cui questo corpo di polizia negli anni si è macchiato. Si tratta di una puntata dal sapore amaro come amara è la constatazione del poliziotto Nicola D’Amore: «Soffro e lotto da trent’anni. E soffro soprattutto per quei miei colleghi che, nonostante la violenza subita da parte dell’istituzione, continuano a fare finta di niente. Il carcere, così com’è, è una pena di morte». Una pena di morte che miete vittime da una parte e dall’altra della barricata. «C’è un bel film degli anni Settanta che si intitola Basta che non si sappia in giro», continua D’Amore. «C’è Nino Manfredi che fa l’agente di custodia e dice: “Noi, tra le forze di polizia, siamo i proletari”. Abbiamo anche questa cosa in comune coi detenuti, oltre agli anni passati dentro la prigione: siamo proletari».
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