I detenuti e le detenute come affrontano la vita in cella? E gli agenti cosa pensano? Un viaggio che racconta anche il doppio isolamento delle donne transgender recluse
Questo podcast fa parte delle inchieste sostenute dai lettori. Fin dalla fondazione di Domani, abbiamo messo al centro il giornalismo d’inchiesta e la sua funzione sociale. Fare giornalismo d’inchiesta richiede tempo, risorse e competenze. Negli anni abbiamo coinvolto lettrici e lettori per supportare alcune delle nostre inchieste più importanti. Qui per sostenere questa inchiesta
Quando entro al carcere di Como per tenere un laboratorio di scrittura creativa è una giornata soleggiata di dicembre. Ma il cielo limpido e l’aria tersa smettono di significare qualcosa appena varco la soglia del penitenziario. Dopo aver consegnato il documento, il cellulare e lo zaino all’agente nel gabbiotto, mi lascio la prima porta blindata alle spalle e inizio a percorre i lunghi corridoi: l’odore acre dei materassi date alle fiamme durante l’ultima rivolta mi invade le narici.
Raggiunta la sezione protetta, mi guardo intorno. Si tratta di uno spazio asfittico e tetro, di dimensioni ridotte, ricavato all’interno della sezione maschile. Qui le detenute transgender scontano la loro pena in un isolamento doppio, imposto per proteggerle dalle violenze che potrebbero subire nelle sezioni comuni. Le guardie non presidiano la sezione da dentro, ma la sorvegliano dal di fuori, elemento che acuisce la sensazione di trovarsi in gabbia, ai margini stessi del carcere, che nella percezione delle protette è quindi esterno, ampio, addirittura promettente.
L’unico spazio a disposizione delle detenute oltre alle loro celle è uno stanzino disadorno. Supero la timidezza e annuncio il laboratorio, di cui nessuno le aveva avvisate. Una di loro mi aiuta, chiama le sue compagne, le esorta a partecipare. Ma il loro sguardo è spento e indifferente: rimangono sdraiate sulla branda, con il sottofondo del televisore, il più grande anestetico carcerario insieme alla cosiddetta terapia, gli psicofarmaci somministrati in dosi massicce come strumento di “pacificazione delle sezioni”.
Farmaci sedativi, ipnotici, antispastici, stabilizzatori dell’umore che, oltre a essere prescritti per fini terapeutici, vengono utilizzati per calmare l’individuo intemperante, anestetizzare quello disperato e mettere a tacere quello chiassoso, con l’obiettivo di rendere innocua la sofferenza senza interrogarne le cause.
Discarica di sogni
La proposta del laboratorio di scrittura non sembra allettarle: richiede fatica mentale, e in un luogo di annientamento della personalità e restringimento al minimo delle attività non solo la concentrazione, ma lo stesso alzarsi dal letto diventa una conquista.
Riusciamo a convincere a partecipare tre detenute, che prendono posto intorno al tavolino traballante e mi guardano con aria interrogativa. Estraggo da una cartella le pagine dei libri che ho fotocopiato: si tratta di lettere, la modalità espressiva che tutti i detenuti conoscono e di solito praticano, essendo uno dei pochi mezzi permessi per comunicare con l’esterno.
Le ho portate perché le leggessimo insieme, perché le interrogassimo, perché ragionassimo su quali parti di sé vengono chiamate in causa nell’atto dello scrivere, e perché a volte le parole, nei momenti di dolore, possano essere dispositivi di libertà e di autoaffermazione, due delle privazioni più dolorose della vita carceraria. Ma la lingua di queste donne non è l’italiano, bensì il portoghese: sono quasi tutte brasiliane, approdate in una casa circondariale del Nord Italia dopo traiettorie biografiche intricate e tragiche.
L’italiano di Gramsci risulta respingente, e allora passiamo alle lettere di Fernando Pessoa, che per fortuna ho stampato anche in lingua originale. Parlano d’amore, e iniziamo a farlo anche noi. Una di loro fagocita la mia attenzione: ha un fare dolente ma partecipe, è intelligente, veloce. Mi racconta l’infanzia di povertà, la famiglia ostile, la prostituzione nelle metropoli del Brasile per pagarsi il corpo femminile che le manca, l’illusione di un italiano in vacanza che si dice innamorato di lei e la porta con sé, a Milano. Lo stesso che dopo qualche mese la abbandona in aeroporto con un biglietto di ritorno che si rivela finto.
Allora si ritrova a vivere per strada, senza permesso di soggiorno, in un paese di cui non conosce la lingua, senza denaro, senza una rete a cui chiedere aiuto, con il proprio corpo come ultima risorsa, che è la stessa a cui in carcere ci si appella attraverso atti di autolesionismo quando non c’è altro modo per essere ascoltati dall’amministrazione.
Mi dice che in prigione ha imparato l’italiano con i romanzi, che il nome femminile che si è scelta è quello della protagonista della sua telenovela preferita, e che avrebbe voluto fare la psicologa. Usa il condizionale passato. Le chiedo quanti anni ha, risponde ventisei.
Assenza
Non serve avere la stessa età per specchiarsi, per chiedersi cosa sia accaduto a una vita perché prendesse una piega tanto amara così presto. È però un facilitatore: rende lo scandalo evidente. Lei, come molte delle altre donne transgender detenute – la popolazione carceraria più isolata e reietta – è in carcere per piccoli reati, frutto dell’emarginazione a cui le condanna un ambiente sociale che non le prevede.
Parecchie di loro avrebbero diritto agli arresti domiciliari, ma mancano di domicilio. Mancano di molte altre cose essenziali, com’è comune nelle biografie di chi finisce in carcere in Italia. Le prigioni sono un margine sovraffollato e in buona parte abitato da persone escluse dalla partecipazione attiva alla cittadinanza, al lavoro, al voto, alla cura, alla dignità.
Persone respinte alle periferie non contemplate dalla politica: perché troppo povere, perché straniere e senza documenti, perché tossicodipendenti, perché affette da disturbi psichiatrici, perché non scolarizzate. E allora parlare di carcere non significa solo interrogarsi su una realtà che riguarda direttamente 61mila persone in Italia, che ogni anno miete morti, registra pestaggi, torture, violazioni dei diritti.
Significa chiedersi che società stiamo costruendo e chi ne rimane escluso. Significa domandarci quali pene ulteriori, non previste dall’ordinamento, lo Stato infligge quando lo sguardo dell’opinione pubblica non può sorvegliare.
Gattabuia è un podcast che parte da queste domande, e si propone di proseguire un lavoro iniziato nel 2022: l’inchiesta Carcere-inferno quotidiano, finanziata dai lettori di Domani e realizzata insieme al collega Luigi Mastrodonato. Da allora ho continuato a visitare le prigioni italiane, a confrontarmi con i detenuti e le detenute, con insegnanti, educatori, agenti, chiedendo loro cosa significa invecchiare in questo contenitore di cemento fuorilegge, aprire gli occhi tutti i giorni in una cella, per anni.
Ne sono uscite sei puntate dense di racconti e testimonianze, accompagnate dalle musiche della sound designer Federica Furlani, che hanno l’obbiettivo di portare il maggior numero di persone nel luogo più ermeticamente chiuso del nostro paese.
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