Anno 1961: l’abolizione delle case chiuse ha fatto emergere il fenomeno clandestino per danarosi clienti. La donna gestisce il Jeunesse, salone di bellezza ma anche luogo di appuntamenti con aspiranti attrici
È una serata calda nel quartiere romano di Testaccio, quella dell’8 luglio 1960, ma Tiziana Britt non se ne accorge. Le finestre del suo appartamento sono chiuse e lei si è seduta davanti al fornello a gas. Ha girato la manopola, poi ha chiuso gli occhi. A trovarla agonizzante e riversa sul pavimento è un’amica che è andata a trovarla.
Tiziana muore così, senza lasciare detto il perché, e la sua morte desta subito la curiosità dei giornali, perché il suo è un nome noto. È arrivata nella capitale dalla provincia laziale attirata dal sogno del cinema, e piano piano lo sta realizzando. Il suo è uno dei volti più noti dei cineromanzi, e proprio questo, apparentemente, le ha permesso di comprarsi una bella macchina e di arredare con gusto il nuovo appartamento. Zigomi alti, capelli biondi e occhi scuri, Tiziana ha una bellezza appariscente e un viso espressivo, che dai rotocalchi campeggia ora sulle pagine di cronaca nera.
Se non sono i soldi allora è il cuore, ragiona la stampa. Tiziana frequentava un giovane allievo dei vigili del fuoco, ma di recente si erano lasciati. Una semplice delusione d’amore, quindi.
Eppure qualcosa di questa storia di suicidio nel sottobosco di Cinecittà rimane oscuro. Fino a quando il nome di Tiziana Britt non torna sulle pagine dei giornali a febbraio 1961.
«Tiziana Britt sarebbe stata coinvolta nel giro delle “squillo di lusso” di Mary Fiore, la proprietaria di un istituto di bellezza arrestata nei giorni scorsi. Stando ad alcune voci la giovane donna si sarebbe tolta la vita non riuscendo a liberarsi dalla Fiore che l’avrebbe minacciata, qualora avesse smesso di “lavorare”, di rivelare tutto al suo fidanzato» si legge sulla Stampa.
Dietro la morte di Tiziana, allora, forse si nasconde davvero qualcosa di più.
Le case chiuse
Un mondo invisibile solo per chi non lo vuole vedere, la cui porta d’accesso è al primo piano di un palazzo ottocentesco in via dei Salvati 23, una traversina stretta di via del Tritone, a due passi da via Veneto. L’insegna si nota alla finestra d’angolo del primo piano. Il salone si chiama Jeunesse e il nome della direttrice è sulla bocca di tutti, nei salotti e nei party di Cinecittà: Mary Fiore.
Quarantenne bionda ossigenata come le dive sui rotocalchi, piccola e formosa, non bella, ma sempre ben vestita, con il sorriso ammiccante, Mary ha inglesizzato il suo nome per dargli un tocco più cosmopolita.
In un’altra vita si chiamava Maria Annunziata e ha lasciato Messina nel 1953 per costruirsi da sola la sua fortuna, pezzo per pezzo. Ha cominciato come commessa, poi come parrucchiera. Ha scoperto subito di essere brava: non tanto e non solo a fare la messa in piega, ma ad ascoltare e a dire la cosa giusta per fare amicizia.
Soprattutto, è brava a capire i desideri delle persone e quanti soldi hanno in tasca per farli avverare. È così che, infine, riesce ad aprire il Jeunesse e a renderlo uno dei segreti meglio custoditi di Roma: rinomato salone di bellezza, ma anche centrale per la gestione degli appuntamenti delle squillo più belle della Capitale.
Del resto, dopo la chiusura delle cosiddette case di tolleranza nel 1958, un mercato si è aperto. Clandestino, certo, ma proprio per questo anche più redditizio. E Mary Fiore ha lo spirito dell’imprenditrice. Sa che il sesso vende in tutti i ceti sociali, per cui meglio puntare in alto, a clienti cui offrire un sogno che li avvicini all’unica cosa che non si può comprare: la luce delle star del cinema, anche sotto forma del rapporto di una notte. La «buona consolazione»: così Mary definisce ciò che le ragazze hanno da offrire, ma solo a chi può permettersi di non badare alla cifra da scrivere sull’assegno.
Il Jeunesse, infatti, è conosciuto per giovani modelle e attrici di belle speranze ma ancora scarso successo. A trovare i clienti ci pensa lei. I paparazzi la fotografano ovunque: prime teatrali, cocktail mondani, sfilate di moda. Qui Mary Fiore prende contatti coi clienti, pubblicizza i suoi servizi e coltiva la fama delle sue «ragazze da un milione». Una macchina perfettamente rodata e soprattutto di enorme successo, tanto che Mary Fiore sta lavorando per aprire una succursale a Beirut e una sede estiva a Ischia. Fino al 7 febbraio 1961, quando la polizia invade la tranquilla serenità del Jeunesse e intorno ai polsi di Mary Fiore si chiudono le manette. Accusa: sfruttamento della prostituzione, in violazione della legge Merlin. Durante il processo, i difensori insistono per l’assoluzione: Mary Fiore non le faceva prostituire, ma cercava di aprire la strada del successo alle aspiranti attrici e la sua attività andava «considerata alla stessa stregua di quella dei press agent».
Dopo appena un giorno di dibattimento, il giudice condanna Mary Fiore a 3 anni e 4 mesi di carcere con un anno di casa di lavoro e 200mila lire di multa, confermati in appello. Lei, per far fronte alle spese legali, è stata costretta a chiudere il salone Jeunesse, che era stato il sogno della sua vita ed è diventato anche la fonte dei suoi guai.

La legge Merlin
La firmataria della legge che ha fatto condannare Mary Fiore è un’altra donna. Si chiama Angelina Merlin, detta Lina, e la sua battaglia contro lo sfruttamento della prostituzione è cominciata nel 1948, ben dieci anni prima dell’approvazione.
L’Italia, infatti, è ancora uno dei pochi paesi europei a tollerare la prostituzione, regolata secondo i principi del buon costume, dell’igiene sessuale e dell’ordine pubblico. In particolare è prevista la schedatura sanitaria delle prostitute, come se fossero solo le donne la fonte del contagio della malattia venerea più temuta: la sifilide.
Pur volendole nascondere agli occhi del pubblico, lo Stato riscuote ingenti profitti dalle case. Nel 1948, in Italia sono registrati 730 postriboli, che ospitano 3.984 donne e sono frequentati da una media di 2 milioni e mezzo di persone, con un’affluenza nelle casse statali di una cifra tra i 10 e i 15 miliardi di lire all’anno. Gli abolizionisti sostengono che le case chiuse garantiscono agli uomini uno stato psicologico di impunità, quando invece la prostituzione riduce le donne in schiavitù. I favorevoli, invece, ritengono che la prostituzione sia volontaria e che come tale sia da considerarsi una normale attività economica.
Il sì definitivo alla legge che abolisce le case chiuse, introduce il reato di sfruttamento della prostituzione e vieta ogni forma di registrazione delle prostitute arriva il 29 gennaio 1958 e segna la storia del costume italiano.
La prostituzione in sé, se volontaria e compiuta da persone maggiorenni, resta invece legale. Secondo la legge Merlin, dunque, le ragazze squillo non sono perseguibili. Lo sono invece coloro che sfruttano per ragioni economiche i loro servizi: Mary Fiore, appunto. La sua storia viene citata per anni, quando si scopre una nuova casa d’appuntamenti clandestina. Non tutto, però, è venuto in superficie: come è stata scoperta l’organizzazione di Mary Fiore?
Come spesso succede in Italia, i misteri sono collegati. Nel 1973, esplode uno scandalo di intercettazioni illegali ai danni di politici e industriali, che coinvolge il presidente di Montedison Eugenio Cefis. Emerge che molti luoghi in Italia sono stati disseminati di microspie e anche molte case d’appuntamento sono tenute sotto controllo, per raccogliere dossier. Anche quella di Mary Fiore.
Nel cono d’ombra, tuttavia, rimane per sempre l’identità dei clienti. Del resto, lo aveva ben chiaro anche Lina Merlin: gli anelli deboli della catena sono e rimangono le donne, e la chiusura delle case di tolleranza ha eliminato la connivenza pubblica, non certo l’ipocrisia privata.
© Riproduzione riservata


