«Sapete che l’olio di Roma da pochi giorni è stato riconosciuto al livello europeo come Igp?», domanda il volto sorridente di Enrico Michetti in un recente post pubblicato sul profilo Facebook del candidato sindaco del centrodestra a Roma. Nella fotografia Michetti stringe una bottiglia di olio, un po’ come fosse champagne pronto per essere stappato. «Il brand Roma tornerà presto a prendersi il posto che merita!», conclude il candidato sindaco.

Le elezioni per il sindaco di Roma del prossimo 3 e 4 ottobre potrebbero essere un’occasione storica per la destra italiana, quella che attraverso molteplici fusioni e trasfusioni dal Movimento sociale italiano e dalla galassia che gli ruotava intorno arriva ad Alleanza nazionale e giù fino a Fratelli d’Italia e alla sua leader, Giorgia Meloni.

È questa destra che ha scelto Michetti imponendolo alla coalizione e che oggi lo circonda di esperti e consulenti con l’obiettivo di farlo arrivare in Campidoglio. Mai prima d’ora era capitato che un partito erede del Msi fosse primo nei sondaggi e che, allo stesso tempo, il candidato espressione di questa forza politica fosse favorito nella corsa alle comunali di Roma.

Ma anche se Michetti è primo in tutti i sondaggi, la sua resta una sfida difficilissima. Soprattutto se i suoi avversari si uniranno al secondo turno, ci sarà bisogno di una performance straordinaria.

Il post del candidato sindaco con la sua bottiglia d’olio è un riassunto involontario di tutti i contorsionismi che la destra dovrà compiere da qui alle elezioni di ottobre. Da un lato la necessità di presentarsi come una forza politica matura e capace di governare, quella rappresentata dal volto sorridente di un candidato della società civile che si felicita per la conquista del marchio Igp da parte dell’olio prodotto dai comuni della provincia di Roma.

Dall’altro una tradizione pesante di cui ancora la destra non si riesce a liberare. Una tradizione che va al di là dei pittoreschi richiami a Roma e alle glorie del passato e che coinvolge lo stesso candidato.

Bighe in seconda fila

Avvocato, consulente di enti locali, eccentrico ospite fisso di un trasmissione su una radio locale, conosciuto dalla politica, ma senza mai essersi esposto, Michetti è stato scelto personalmente dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni per il suo essere un professionista apparentemente lontano dalla politica e dalla tradizione della destra romana. Meloni non vuole ripetere l’errore di Gianni Alemanno, il primo e fino a oggi unico sindaco di destra eletto a Roma, che ha riempito il comune di amici e compagni di partito ed è finito travolto tra scandali e inefficienze. Michetti deve essere la faccia competente e tecnocratica della destra, il Mario Draghi dei postfascisti nel momento del loro massimo consenso da un secolo a questa parte.

Tutti i sondaggi lo danno in testa al primo turno con il 35 per cento dei voti, tra i cinque e i dieci punti davanti al suo principale concorrente, l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Pd). Eppure, all’interno del suo staff il clima è teso. Non c’è modo di nasconderlo. Fino a questo momento, Michetti non ha dato una grande prova di sé. I manifesti in giro per la città ironizzano sulla sua scarsa notorietà. Sotto una grande scritta “Michetti chi?”, spiegano che è l’avvocato che i comuni chiamano a risolvere i loro problemi. Le occasioni che aveva per dimostrarlo, però, fino a oggi le ha mancate tutte. Nel primo dibattito con i suoi avversari, alla fine di luglio, si è inerpicato in una serie di nostalgiche apologie della città dei papi e di promesse di ritorno ai fasti dell’antica Roma.Nessun candidato, quella sera, si è fatto notare per originalità o concretezza. Ma Michetti ha spiccato per la vaghezza dei suoi argomenti e la grandiosità dei suoi riferimenti. E poi, inspiegabilmente, se ne è andato nel mezzo del dibattito, lasciando il pubblico e i suoi rivali a bocca aperta. Calenda lo ha fulminato con una battuta: «Aveva lasciato la biga in seconda fila». Michetti quello delle bighe è un’etichetta che può rimanere attaccata. E a Roma una pasquinata costava caro anche ai papi.

Lo staff di Michetti smentisce che l’arrivo del consulente Luigi Di Gregorio, docente di marketing politico all’università Luiss e veterano delle campagne elettorali di Alemanno e di Renata Polverini, sia una mossa da parte di Meloni per riparare ai danni causati dal dibattito. Di Gregorio, dicono, aveva già incontrato un paio di volte Michetti nei giorni precedenti. La squadra, assicurano, è ancora in fase di costruzione e la campagna elettorale è appena agli inizi.

La strategia

I leader della destra, però, sanno che l’aritmetica è tiranna. Alle ultime europee, Lega e Fratelli d’Italia hanno raccolto insieme circa il 30 per cento dei voti, 20 per cento la prima e dieci i secondi. Oggi i sondaggi, a percentuali invertite, li danno allo stesso livello. Aggiungendo ciò che resta di Forza Italia e altri alleati non si arriva al 35 per cento. Al primo turno un sindaco può dare alla coalizione un paio di punti al massimo. O li può togliere. Questo significa che gli avversari del centrodestra, anche se divisi, hanno più del 60 per cento dei voti. L’unica speranza di Michetti è quella di arrivare al ballottaggio e sovvertire le aspettative. È questa la ragione strategica che ha spinto Giorgia Meloni a sceglierlo. Un candidato civico. Un buon amministratore, formalmente né di destra né di sinistra, che al ballottaggio può presentarsi come il candidato di tutti i romani che vogliono un sindaco competente.

Ma questa immagine parte già ammaccata e non solo per le battute sulle bighe. Una parte delle credenziali vantate dallo stesso Michetti come prova della sua competenza sono piuttosto fragili. Docente a contratto dell’università della Tuscia per un corso di 42 ore annue, utilizza spesso il titolo di professore, cosa che alcuni ritengono inappropriata.

Le riviste che edita sono pubblicazioni specialistiche per enti locali, non riviste scientifiche di alto livello, come invece sembra suggerire nei suoi discorsi. E questo senza dire nulla della miniera di potenziali dichiarazioni controverse che riempiono i suoi interventi a Radio Radio, l’emittente locale della quale si autodefinisce “tribuno”. Nel suo staff ritengono che nonostante tutto Michetti abbia comunque buone possibilità al ballottaggio, anche se i sondaggi per ora lo danno spesso perdente. Sanno che il suo avversario più probabile, Gualtieri, non è un lottatore e che non si devono aspettare colpi troppo duri sui punti deboli del loro candidato.

A differenza dell’ex ministro, Michetti ha un certo carisma tribunizio e una spontaneità popolare che potrebbe conquistare i romani (a patto di non cadere nell’eccesso opposto e trasformarsi in una macchietta). Inoltre il candidato del centrodestra può giocare la carta del professionista venuto a salvare la politica e accusare Gualtieri di essere un vecchio arnese di partito. Anche le sue competenze, sottolineano dallo staff, non vanno trascurate. «Se al prossimo confronto tirassero fuori una delibera comunale e chiedessero ai candidati se è valida o no, Michetti sarebbe l’unico in grado di rispondere», dice una persona vicina al candidato.

Ma al ballottaggio bisogna arrivarci interi, questo è il problema. Alle elezioni mancano ancora due mesi e anche se una buona metà di questo periodo gli italiani lo passano in vacanza, c’è comunque un mese di intensa campagna elettorale a cui prepararsi. Durante il primo turno, essere il favorito finirà per penalizzarlo perché i suoi avversari si sono già dimostrati pronti a coalizzarsi contro di lui. A questo proposito, Calenda ha sfornato un’altra battuta quando ha detto che non si immaginava fosse possibile, ma che Michetti «è meno preparato di Virginia Raggi».

La squadra

Non è semplice trasformare Michetti in un Mario Draghi o Monti. Per farlo, la destra romana si è impegnata a fondo. Nello staff che circonda Michetti consulenti, comunicatori e addetti stampa sono quasi tutti “di area”, come si definiscono loro stessi, cioè vicini alla storica destra romana.

I loro background sono vari, da giornalisti legati alla tifoseria della Lazio a ex portavoce di presidenti del Senato. Qualcuno di fiducia o scelto dallo stesso Michetti che non provenga della destra romana, invece, si fa fatica a trovarlo. Dallo staff dicono che alla squadra si potrebbero presto aggiungere persone che arrivano da Radio Radio, l’emittente di cui Michetti è ospite fisso. I due titolari sono comunque abbastanza vicini alla destra romana. In ogni caso, intorno al candidato, quelli che prendono le decisioni politiche provengono tutti dallo stesso ambiente politico. A partire da Giorgia Meloni, che ha scelto personalmente Michetti, e dai suoi plenipotenziari in città, Fabio Rampelli, che negli anni Ottanta militava a Roma insieme a Gianni Alemanno, e Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera e marito di Arianna Meloni, sorella di Giorgia.

Sull’altra sponda della destra, il leader della Lega Matteo Salvini ha lasciato ampio margine in città ai transfughi di An passati tra i suoi ranghi. Per ora si è accontentato di mettere a capo della lista della Lega la candidata “prosindaca” in ticket con Michetti, Simonetta Matone, che sta mantenendo un profilo molto basso, quasi che venisse tenuta di scorta, pronta a sostituire Michetti come frontwoman, in caso di incidenti.

A seguire attentamente la campagna elettorale di Roma c’è invece Claudio Durigon, ex sottosegretario alle Finanze, coordinatore della Lega in regione ed ex leader del sindacato di destra Ugl, lo stesso di Renata Polverini. E c’è la deputata Barbara Saltamartini, che prima di passare alla Lega ha militato nella destra romana per oltre trent’anni.

Si tratta di quella generazione che ha avuto il suo lavacro dal fascismo sotto il leader di An Gianfranco Fini. I primi, nella storia del dopoguerra, ad arrivare al governo, non solo di Roma, ma prima ancora di tutto il paese. Si tratta di una destra che ha fatto ben più che mettersi il doppiopetto, come si diceva ai tempi del leader del Msi Giorgio Almirante. Ha messo anche camicia e cravatta, è arrivata nei ministeri ed è entrata nei salotti buoni del potere.

Fino a oggi avevano governato, ma dal posto di dietro, con accanto l’ingombrante presenza di Silvio Berlusconi e la malcelata ostilità di Umberto Bossi. Ora si ripresenta l’opportunità di conquistare palazzo Chigi e il Campidoglio e di farlo da primo partito.

Ma la campagna di Roma sembra dimostrare che questa transizione non è ancora del tutto completa. Per quanto si sia impegnata, questa destra che vorrebbe essere rispettabile e di governo, punta su Michetti. Forse ha commesso un errore. Ma ora è tardi per rimediare senza trasformare questa stagione di trionfi in un insuccesso imbarazzante. Bisogna mordere la pallottola e andare avanti. Sperando che il candidato non si sfasci prima del ballottaggio.

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