Il Covid-19 potrebbe rimescolare le carte per l’elezione del presidente della Repubblica a causa delle probabili assenze per contagi e relative quarantena. Il corpo elettorale per eleggere il capo dello stato per sette anni comprende solo parlamentari (630 deputati, 315 senatori e 6 senatori a vita) e 58 rappresentanti regionali, per un totale di 1.009 elettori.

I conti in teoria

Nelle prime tre votazioni, a scrutinio segreto, è richiesta per eleggere il presidente la maggioranza dei 2/3 dei membri, cioè 673 poi dalla quarta votazione basteranno 505 voti.

Per raggiungere questa cifra basterebbe una alleanza prima maniera governo populista Conte I, stretto tra Lega e M5s, che da soli raggiungono il 45 per cento dei voti in aula, con l’aiuto di qualche cespuglio o partito minore.

Ma si deve mettere in conto che potrebbero mancare al voto dai 40 ai 60 elettori a causa delle quarantene in ogni votazione. Il Covid e le sue assenze forzate che potrebbero colpire ogni schieramento rimescola, quindi, i giochi per il voto che si effettua molto lentamente, con una sola votazione al giorno.

Debito

Non solo. Un analista esperto di elezioni europee e americane ha ponderato il peso dello spread italiano sui Bund (a proposito vi siete accorti che il rendimento sul bund decennale si sta avvicinando allo zero, cioè è risalito) per un valore pari al voto di 300 grandi elettori.

Fuor di metafora è chiaro che un paese con un terzo del suo debito pubblico in mano alle banche centrali non può non tener conto dello spread dei Btp che indica il grado di fiducia di cui gode il paese da parte dei creditori internazionali.

Forse lo spread non varrà come il voto di 300 grandi elettori, ma sicuramente entrerà nel catafalco (come viene chiamata la barocca cabina elettorale per il voto presidenziale in aula) per votare senza essere visti.

A proposito, non sarebbe meglio obbligare i grandi elettori, come ogni cittadino, a lasciare il cellulare e possibili foto del voto fuori dal cabina elettorale?

Molto si è detto sull’intervento della banca d’investimento americana Goldman Sachs che preferirebbe vedere Mario Draghi al suo posto di premier per non rischiare di perdere i fondi del Recovery fund.

Ma cosa ha veramente detto la banca americana? Goldman Sachs (o per più esattezza l’estensore del report, Filippo Taddei, l’economista della riforma dell’articolo 18 dello statuto nel jobs act di Matteo Renzi), ha scritto testualmente: «Sebbene l’opinione comune sia che Draghi sarà il prossimo presidente, noi manteniamo il nostro scenario di base secondo cui Draghi rimarrà come Primo ministro - ma questa è una previsione incerta («a close call») - e supervisionerà la rapida attuazione del Recovery Fund».

L’opinione comune

Insomma Taddei crede che Draghi rimarrà a palazzo Chigi ma è molto prudente e ammette che l’opinione comune è che Draghi sarà presidente della Repubblica.

Una versione molto più articolata e meno tranchant di quanto la stampa italiana abbia poi divulgato troppo sbrigativamente. Taddei inoltre scrive: «L’Italia ha previsto di beneficiare di cospicui esborsi dell’Ue nel 2022, ma l’effettiva adozione e l’impulso fiscale dipenderanno dalla sua capacità di realizzare le riforme promesse e gli investimenti programmati. Eventuali ritardi di attuazione a seguito delle dimissioni di Draghi dalla premiership potrebbe ridurre l’utilizzo effettivo delle sovvenzioni del Recovery fund tra il 50 per cento e 75 per cento (sopra la nostra linea di base), diminuendo l’impulso fiscale alla crescita del Pil di 0,1 punti percentuali nel 2022 e 0,35 punti percentuali nel 2023 e fino a 0,15 punti percentuali e 0,55 punti percentuali in caso di elezioni anticipate».

Ancoraggio per sette anni

Come si evince sono previsioni di massima che lo stesso premier Draghi ha chiarito nel suo discorso di fine anno, quando ha affermato che la linea del governo è stata data e che bisogna solo perseguirla. Ma per fare questo ci vuole la volontà politica, non la credibilità di Mario Draghi, molto più utile per ancorare il paese, dal colle del Quirinale, all’America e all’Europa per sette anni e al riparo da cambi di umore repentini e insondabili dei vari partiti in calo nei sondaggi.

 

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