Per la Corte, il reato di epidemia colposa può configurarsi anche in forma omissiva: non serve diffondere attivamente il virus, è reato anche non aver fatto ciò che si aveva l’obbligo di fare. Una decisione che può rimettere in dubbio le archiviazioni sulla strage in Val Seriana. L’ex procuratore di Bergamo: «Il nostro obiettivo era capire se quelle morti si potessero evitare. E ci sono perizie solide che lo dimostrano»
Cinque anni dopo la prima ondata Covid, la Corte di Cassazione a sezioni unite ha stabilito che il reato di epidemia colposa può configurarsi anche in forma omissiva. Non serve più diffondere attivamente un virus: anche non aver fatto ciò che si aveva l’obbligo di fare può costituire reato. Una svolta che potrebbe rimettere in discussione le archiviazioni che hanno condotto in un vicolo cieco le inchieste giudiziarie sulla strage della Val Seriana, a Bergamo. Su questa pronuncia Domani ha chiesto un commento a chi quella verità l’ha inseguita fin dall’inizio, ai protagonisti delle inchieste e delle denunce da cui sono partite le indagini giudiziarie.
«Siamo stati accusati di populismo giudiziario, di non aver perseguito un reato, ma di essere andati a caccia di un reato», dice Antonio Chiappani, l’ex procuratore capo di Bergamo che ha cercato di ricostruire le responsabilità istituzionali nella gestione della pandemia. «Ma rifarei tutto. Il nostro obiettivo era capire se quelle morti si potessero evitare. E ci sono perizie solide che lo dimostrano». Ma la norma non permetteva di andare avanti. “Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo”, recita l’articolo 438 del Codice penale.
«Fin dall’inizio sapevamo che il reato di epidemia colposa, per come era interpretato, escludeva l’omissione. Eppure noi avevamo davanti solo una catena di omissioni: la mancata zona rossa, la mancata valutazione del rischio, il mancato aggiornamento del piano pandemico, la mancanza di organizzazione della medicina territoriale e via dicendo. Abbiamo fatto un’indagine imponente, con oltre venti indagati, ma sapevamo che prima o poi qualcuno ci avrebbe detto: non si può processare per omissione. E così è stato».
Si è parlato di “discrezionalità politica”. «L’atto politico è sindacabile dal punto di vista giudiziario?». Se non lo è, domanda Chiappani, «di chi è la colpa? Del buon Dio?». E aggiunge: «Abbiamo lavorato con una norma del 1930. Ma il concetto di “diffusione” di allora non può valere per una città con un aeroporto come quello di Orio al Serio, che solo nel 2019 ha avuto 13 milioni di passeggeri. È anacronistico».
Ora, la domanda che in molti si fanno è se quel procedimento penale sulla gestione della prima ondata Covid in Lombardia si potrà riaprire. Chiappani è cauto: «Le valutazioni spettano alle procure di Bergamo e Brescia. Il cerino resta in mano al Tribunale dei ministri. Mi chiedo: una diversa interpretazione della norma costituisce un fatto nuovo per poter riaprire un’indagine? Non ne sono convinto. L’importante è che d’ora in poi si dica che anche non agire, quando si ha l’obbligo giuridico di farlo, può costituire reato. È stato l’insieme delle omissioni ad aver provocato la diffusione del virus».
Eppure, due anni fa, la procura di Brescia ha deciso di archiviare tutto, tranne il filone sulla mancata zona rossa, trasferito ai pm di Milano, che poi hanno archiviato senza neppure comunicarlo ai legali delle vittime. Secondo Chiappani, è grave che nell’indagine che è passata per competenza da Bergamo al tribunale dei ministri di Brescia (nella quale erano indagati i vertici dello Stato, quelli di Regione Lombardia e i consulenti tecnici) i familiari delle vittime non siano stati ammessi: «È un vulnus enorme», spiega. «Se la Corte europea dirà che un’indagine così condotta è illegittima, allora è tutto da rifare. Perché chi rappresenta i morti che erano nelle bare di Bergamo aveva il diritto di dire la sua».
I legali dei familiari delle vittime Covid hanno fatto ricorso alla Cedu, che l’ha dichiarato ammissibile notificandolo al governo. Chiappani è convinto che «sarà forse la Corte europea a riaprire la partita». Poi riflette: «Questa inchiesta è servita a riportare in superficie il principio di precauzione». L’intervento della Cassazione, secondo l’ex procuratore, è stato a tutela della salute pubblica: «La dottrina ha iniziato a farsi viva – conclude – a qualcosa siamo serviti noi e i morti di Bergamo».
I numeri parlano
Andrea Crisanti, microbiologo, oggi senatore del Pd, all’epoca fu incaricato dai magistrati di Bergamo di redigere una consulenza scientifica. «I numeri parlano chiaro: l’applicazione tempestiva della zona rossa in Val Seriana avrebbe evitato più di quattromila morti».
Eppure questa perizia è stata attaccata, soprattutto da chi sosteneva che non si potesse giudicare con il senno di poi. «Chi non è in grado di leggere quei modelli sofisticati non può valutarli. Ma chi aveva il dovere di capirli avrebbe dovuto farlo». Crisanti rammenta poi una data cruciale: «Il 28 febbraio del 2020 Regione Lombardia aveva i dati che prefiguravano uno scenario epidemiologico apocalittico. Quel giorno la regione manda alla protezione civile un’email dicendo che l’R0 è uguale a 2 e che è tutto sotto controllo. Non solo non chiede la zona rossa, ma chiede di rimanere in zona gialla, mentre eravamo già in emergenza».
Il confine tra responsabilità politica e penale è stato centrale nella decisione del tribunale dei ministri di Brescia di archiviare. «La procura di Bergamo ha sfidato una dottrina granitica – conclude Crisanti – e penso che la pronuncia della Cassazione possa fare emergere che ci sono state delle responsabilità e che molti l’hanno fatta franca per un’interpretazione restrittiva di una legge del 1930».
Il diritto
Il giurista Stefano Zirulia, docente di diritto penale all’Università Statale di Milano, sottolinea che «questa pronuncia della Cassazione fa giurisprudenza, è vincolante e d’ora in poi i giudici dovranno attenersi a questo principio di diritto, seppure sia riferita a una vicenda diversa da quella di Bergamo». Offre quindi la possibilità di riaprire procedimenti archiviati: «Il fatto che non ci siano dubbi che l’epidemia sia configurabile in forma omissiva apre la strada a nuove indagini, anche se dopo la riforma Cartabia del 2022 i margini di riapertura dei procedimenti archiviati sono più stringenti».
E poi c’è il cuore della questione: la causalità. Il tribunale dei ministri – secondo Zirulia – ha affrontato il tema in modo parziale. «Ha detto che non è possibile dimostrare con certezza che le vittime Covid non si sarebbero comunque ammalate anche in presenza delle azioni omesse. Questa argomentazione può valere per l’accusa di omicidio colposo, ma non per il delitto di epidemia perché – spiega – l’epidemia è un evento collettivo e impersonale. Non è necessario individuare per nome e cognome le persone. È un reato contro l’incolumità pubblica». Zirulia chiarisce che «sulla singola persona è difficilissimo dimostrare il nesso causale, ma sulla popolazione degli esposti si possono fare dei calcoli, mantenendo prudenza.
Il giudizio contro-fattuale deve essere impostato in senso collettivo. Bisogna chiedersi: se avessero fatto tutto quello che era obbligatorio fare, ci sarebbero stati gli stessi decessi? Se c’è uno studio scientifico, come quello di Crisanti, che dimostra che 4mila persone non sarebbero morte, questo eccesso è un’informazione pronta per essere utilizzata, una fotografia validissima che ha cristallizzato la dinamica causale». Poi aggiunge: «Il fatto che ora il reato sia configurabile anche in forma omissiva dovrebbe motivare un approfondimento sulla causalità dell’epidemia».
Anche per Zirulia la svolta potrebbe arrivare dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: «La Cedu incoraggia gli Stati membri a condurre seriamente indagini quando sono in gioco diritti protetti dalla Convenzione, come il diritto alla vita. Basta guardare la sentenza sulla Terra dei fuochi: la Corte ha condannato l’Italia anche in ragione dell’inefficace risposta della magistratura. Di fronte a morti sospette, non svolgere indagini efficaci è una violazione del diritto alla vita».
Consuelo Locati, avvocata che da cinque anni rappresenta centinaia di familiari delle vittime Covid, lo sa bene: «Abbiamo fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per lesione dei diritti delle parti offese. Le vittime non sono state ammesse. La verità giudiziaria non può essere archiviata così. Lo dobbiamo ai nostri morti».
Infine Locati aggiunge: «La Cassazione conferma che l’interpretazione data dalla procura di Bergamo al reato di epidemia colposa, configurabile anche in forma omissiva, era corretta perché adeguata ai tempi». Questa importante svolta non riporta indietro il tempo, ma dice con chiarezza che anche non fare può uccidere. E questo, in un paese dove le omissioni e lo scarico di responsabilità sono state a lungo la regola, è già un atto di giustizia.
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