Per capire come nasce la “quasi crisi” del governo Draghi sulle spese militari bisogna riavvolgere il nastro del film delle scorse 48 ore. Sapendo che il prequel però data nei giorni del Quirinale, quando il presidente del Consiglio ha toccato con mano il freddo delle forze politiche nei suoi confronti e il rischio di un finale di legislatura con i provvedimenti promessi, e già incardinati in aula, che procedono ad andamento lento, con il rischio di non arrivare a meta. Cosa che gli ispettori della Ue potrebbero presto capire. Quando martedì pomeriggio Giuseppe Conte si è recato a palazzo Chigi, Mario Draghi sapeva già quello che gli avrebbe detto a proposito della «gradualità delle spese militari» e conosceva bene le ragioni con cui poteva, volendolo, smontare subito uno scontro che in quelle ore, in un crescendo rossiniano, arrivava a sfiorare la porta di una crisi di governo.

Quello che Draghi poteva dire è quello che ieri, nel primo pomeriggio, ha detto il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. «Dal 2019 a oggi», dunque dal governo Conte II in poi, «abbiamo intrapreso una crescita graduale delle risorse sia sul bilancio ordinario che sugli investimenti, che ci consentirà, se anche le prossime leggi di bilancio lo confermeranno, di raggiungere la media di spesa dei paesi dell’Unione europea aderenti alla Nato e poi, entro il 2028, il raggiungimento dell’obiettivo del 2 per cento». Guerini lo sa bene: nel novembre 2019 lui stesso aveva già detto che l’obiettivo di spendere il 2 per cento del Pil per le spese militari entro il 2024 non era «realisticamente realizzabile».

Avvertimento per tutti

Ma Draghi non lo ha fatto. E nel confronto con Conte ha tenuto il punto per dare l’impressione al suo interlocutore di non sentire ragioni per «diluire» l’oneroso impegno economico dell’adeguamento delle spese militari al 2 per cento dal 2024 – la data che palazzo Chigi ha lasciato circolare – a quattro anni più tardi. A partire dal prossimo Def, altra cosa che ha fatto saltare i nervi al presidente M5s che chiede che il tema sia rimandato alla prossima finanziaria.

Subito dopo davanti a Sergio Mattarella il premier ha riferito con gravità che «il governo intende rispettare e ribadire con decisione gli impegni Nato sull’aumento delle spese militari al 2 per cento del Pil», gli impegni assunti «non possono essere messi in discussione», «se ciò avvenisse verrebbe meno il patto che tiene in piedi la maggioranza». Gli impegni, a quell’ora, erano «i piani concordati nel 2014, e seguiti dai vari governi che si sono succeduti» che «prevedono entro il 2024 un continuo progressivo aumento degli investimenti».

Draghi dunque ha spinto l’acceleratore per avvertire Conte – il nuovo Conte rimesso in sella dal voto dei suoi a caccia di legittimazione che però giura di non volere la crisi di governo – che non è disposto a farsi logorare dal suo predecessore. E con l’M5s, avvertire tutta la maggioranza. Che a gennaio non lo ha voluto al Quirinale, e da quel momento ha inaugurato l’ultimo anno di legislatura mettendo i bastoni fra le ruote – questa è la visione di palazzo Chigi – a tutto il lavoro del governo. A volte coprendosi dietro gli inevitabili rallentamenti dei lavori d’aula dovuti ai provvedimenti concentrati sulla guerra russo-ucraina. Quindi non solo le spese militari, ma anche la delega fiscale impantanata in commissione, la riforma del Csm, quella della concorrenza.

Battaglie d’aula

Maggioranza avvertita, mezza salvata. Ieri sera al Senato il governo ha posto la questione di fiducia al decreto Ucraina due. Quando pochi minuti prima di andare in aula il ministro per i Rapporti con il parlamento Federico D’Incà ha riunito i capigruppo della maggioranza per preannunciarlo – sarà votata oggi a partire dalle 11, mentre Mario Draghi starà parlando alla stampa estera – i Cinque stelle hanno sostenuto che riuscendo a mandare in aula il provvedimento senza relatore, visto che il parere della commissione Bilancio è arrivato troppo tardi, hanno cancellato per sempre l’ordine del giorno che impegna a rispettare gli impegni di spesa con la Nato.

«Abbiamo raggiunto il nostro scopo» hanno dichiarato in massa i senatori grillini, «portando in aula il decreto senza relatore facciamo decadere gli odg approvati in commissione, compreso quello dell’opposizione sull’aumento straordinario delle spese militari che ci vede fermamente contrari».

La presidente dei senatori dem Simona Malpezzi si è sgolata per spiegare che quell’ordine del giorno comunque resterà agli atti perché in commissione è stato assunto dal governo. Se viene posta la fiducia in aula, come fa a decadere un ordine del giorno che il governo ha già assunto? I dati di realtà però poco importano in una discussione impazzita. Da una parte l’ex premier Conte ha chiesto di non onorare impegni che ha già preso lui, in persona, nel 2019. E che peraltro la scorsa settimana i suoi avevano già votato nell’aula della Camera.

In mezzo, il Pd, per non rompere con l’alleato, ha provato a fare «da cerniera», secondo indicazioni del segretario Enrico Letta. Che ha chiesto ai suoi di evitare di attaccare i Cinque stelle per non «esacerbare» lo scontro. Anche se proprio gli uomini di Guerini in parlamento parlano dell’alleanza giallorossa ormai come di «un’accozzaglia». Alla fine i contiani devono ammettere che le parole di Guerini sono «un buon passo verso le nostre posizioni». Il Pd è soddisfatto della mediazione: fonti del Nazareno riferiscono che Letta ha apprezzato la scelta del titolare della Difesa di esplicitare la data del 2028 come orizzonte per il raggiungimento del traguardo del 2 per cento di spese militari, una soluzione «sostenibile» di cui da tempo si discute in ambienti della difesa e che consente di conciliare le diverse richieste in campo. «Insistiamo su questo», è il senso del messaggio, senza «alcuno scambio tra gli investimenti nel sociale e quelli per la sicurezza e la difesa». Tutto finito? Per ora. L’avviso di Draghi è chiaro, anche e soprattutto ai ministri. Oggi il premier parlerà ai cronisti della stampa estera, perché la «voce» dell’Italia risulti la sua, non quella delle forze della maggioranza, a caccia di consensi domestici, con un occhio ai sondaggi e l’altro alle politiche. Almeno fino al prossimo guaio.

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