La prima volta che Redi Osmani ha messo piede nel porto di Trieste era un adolescente. Aveva iniziato a lavorare lì come facchino, dopo aver lasciato un curriculum quasi per caso. Oggi di anni ne ha 35 e non ha nessuna intenzione di cambiare ambiente di lavoro. «Questo non è un posto qualsiasi. È pieno di tradizione – dice tra un turno e l’altro – Da qua è passato tutto il caffè possibile immaginabile».

Attualmente il suo ruolo è quello di operatore polivalente, fa parte di una squadra di circa mille lavoratori che ogni giorno si districano in mezzo al complesso di moli, container e pietre frangiflutti che danno forma al porto dell’Alto Adriatico, tre secoli di storia celebrati nel 2019: «Dire Trieste è come dire porto. È l’essenza della città».

Mentre i triestini votano per scegliere il nuovo sindaco e, secondo i sondaggi, si preparano a riconfermare il sindaco uscente di centrodestra, Roberto Dipiazza, anche il venerabile porto cittadino è in attesa di novità. Centinaia di milioni di euro stanno per approdare nel goldo di Trieste, provenienti dai fondi del Pnrr e dagli investimenti internazionali. Come saranno spesi? Che impatto avranno sulla città? E chi sarà a gestirli? Sono domande importanti almeno quanto chi sarà il prossimo sindaco.

Il porto franco

Era il 1719 l’imperatore Carlo VI d’Asburgo concesse il privilegio dell’esenzione doganale che rese Trieste un porto franco, cioè esente da imposizioni doganali, trasformandolo nel più importante sbocco sul mare dell’impero asburgico. Dopo la Seconda guerra mondiale, intorno al porto si pensava di creare una piccola Hong Kong indipendente sull’Adriatico, progetto poi sfumato con il ritorno della città all’Italia.

Da allora, qualcosa ha iniziato a cambiare nel rapporto tra la città e il suo porto.

«Con l’accelerazione dei commerci internazionali non era più richiesta un’intermediazione del centro urbano, che iniziò così a guadagnarci meno – spiega Giulio Mellinato, docente di Storia economica all'Università di Milano-Bicocca – Oggi, come in ogni porto contemporaneo, vi avvengono cose che sono governate a molti chilometri di distanza».

Questo genera un contrasto tra locale e globale, per esempio, in cui i triestini vorrebbero che quanto più valore possibile si fermasse in città, «ma se questo accadesse il porto rallenterebbe, diventando meno competitivo. E ancora: la realtà locale vorrebbe più controlli, mentre il commercio internazionale richiede che siano ridotti al minimo».

La simbiosi si è dunque stemperata, ma il porto franco di Trieste continua ad avere un ruolo fondamentale negli interessi politici locali. Stefano Puzzer, sindacalista portavoce del Coordinamento lavoratori portuali di Trieste, sa quanto la loro voce sia tenuta in considerazione da chi ambisce ad amministrare la città. «Cerchiamo una parte politica che metta nero su bianco le nostre richieste. Vogliamo che non ci sia speculazione edilizia, che si punti a una scuola di formazione del lavoro portuale, che si ragioni su un terminal passeggeri per le navi da crociera».

Tra gli obiettivi principali e più urgenti c’è però anche l’applicazione dell’Allegato VIII. Inserito nell’accordo di pace tra Italia e potenze alleate alla fine della guerra, il documento garantisce lo status di extradoganalità al porto di Trieste, offrendo così vantaggi economici per il traffico di merci e per la loro trasformazione. «A ostacolare l’applicazione di questo allegato è il fatto che nessuno sa come si deve fare. Come sindacato, siamo riusciti ad andare a Roma al ministero dell’Economia per iniziare a intavolare questo discorso. Intanto, ringraziamo il presidente Zeno D’Agostino, perché sembra che il porto di Trieste sia nato quando è arrivato lui. Finalmente – conclude Puzzer - c’è qualcuno che ha capito le enormi potenzialità del porto di Trieste, l’unico porto franco internazionale all’interno della zona europea».

Il direttore

Quello di D’Agostino e un nome che torna sempre quando si parla del porto di Trieste. Per la sua nomina alla testa dell’Autorità portuale del Mar Adriatico orientale, nel 2015, era stato determinante il sostegno di Debora Serracchiani, allora presidente della regione Friuli Venezia Giulia. «Il porto – dice oggi, da capogruppo dei deputati Pd – è rinato con la nuova Autorità ma anche con la riforma del sistema portuale italiano fatta dal governo Renzi, ritrovando una vocazione internazionale che crea relazioni con l’Europa».

«L’Italia – continua – ha un ruolo strategico in un’area dell’Europa proprio perché c’è il porto di Trieste. Questo a lungo non è stato pienamente capito. Non è un caso se l’Europa lo ha dichiarato un “core port”, punto d’intersezione dei due corridoi paneuropei del Mediterraneo e dell’Adriatico-Baltico».

Il nuovo slancio del porto giuliano si deve a risultati come l’accordo di programma per la riconversione e lo smantellamento dell’area a caldo della ferriera di Servola, raggiunto nel 2020, grazie anche al decisivo impegno del ministro triestino Stefano Patuanelli, del Movimento 5 stelle, dopo decenni di polemiche contro la cosiddetta “Ilva del Nordest” a causa delle emissioni inquinanti dell’impianto di proprietà di Arvedi, e dei loro effetti sulla salute degli abitanti del rione.

O come la cessione agli ungheresi di Adria Port di un’area destinata a diventare un nuovo terminal merci, e l’ingresso come socio dell’Interporto di Trieste di Duisburger Hafen, il più grande terminalista intermodale del mondo.

Proprio il 2020, poi, e nonostante il calo del 13 per cento delle merci movimentate a causa della crisi innescata dalla pandemia, si è concluso con uno degli accordi più importanti della gestione D’Agostino: quello con i tedeschi di Hamburger Hafen und Logistik, che sono diventati i soci di maggioranza della piattaforma logistica del porto giuliano.

Il futuro

Il presidente preferisce tuttavia porre l’accento su un altro aspetto: «Di solito Ie analisi sulle performance dei porti si concentrano solo sulla parte infrastrutturale. Noi però abbiamo realizzato molte operazioni societarie che hanno un’ottica di crescita al di fuori dei confini del porto». Si riferisce ad esempio gli investimenti nelle società che gestiscono gli interporti di Trieste e Cervignano, e prossimamente in quello di Gorizia.

La logica, dice D’Agostino, è che l’Autorità portuale debba essere non solo il gestore di uno scalo dove arrivano le merci, ma anche «uno strumento che permetta di sviluppare attività industriali. È una visione diversa della governance del territorio: grazie a questo percorso siamo diventati l’interlocutore principale dei soggetti che vogliono investire qui. Arrivare e trovare un soggetto unico per interloquire su tematiche trasportistiche, logistiche, industriali è di grande aiuto per l’insediamento delle imprese».

Una strategia che ha dato i suoi frutti. Mentre le campagne elettorale nelle altre grandi città sono punteggiate da notizie di investimenti ritirati e aziende che chiudono stabilimenti, a Trieste Arvedi ha annunciato investimenti più ampi rispetto a quelli inseriti nell’accordo di programma sulla ex ferriera. Il 28 settembre poi è arrivata la notizia dell’insediamento di un impianto di produzione di British American Tobacco (Bat) nell’area FreeEste, uno spazio in regime di punto franco creato dall’Interporto e dall’Autorità portuale.

Il gigante del tabacco investirà circa mezzo miliardo di euro in cinque anni per costruire uno stabilimento ad alto tasso di innovazione, focalizzato sulle sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. Una volta a regime, dovrebbe generare 600 posti di lavoro, senza contare l’indotto: non pochi, in una città che da decenni fa i conti con una crescente deindustrializzazione.

Il Pnrr

Altri progetti arriveranno poi grazie al Pnrr, che al porto di Trieste ha destinato 450 milioni di euro: poco meno che a quello di Genova, «il cui bacino però», spiega D’Agostino «è fondamentalmente nazionale, mentre per Trieste il mercato italiano rappresenta solo il 10 per cento» .

Se Genova punterà tutto sul mega-piano di spostamento della diga foranea, la nostra progettualità è diversa», continua il presidente del porto. A Trieste infatti i fondi del piano di ripresa verranno spesi «in diversi progetti di media grandezza, nei quali però c’è una forte componente di cofinanziamento di altri soggetti, pubblici o privati, che stimiamo nell’ordine dei 6-700 milioni».

Senza contare gli investimenti infrastrutturali: l’elettrificazione delle banchine di Trieste e Monfalcone, e la realizzazione di una nuova stazione ferroviaria sull’area dell’ex Ferriera, “che servirà tutto il porto, permetterà il passaggio di treni lunghi 750 metri contro i 425 attuali, e accelererà alcuni ulteriori sviluppi previsti dal piano regolatore”, dice D’Agostino.

Il piano più ambizioso è però un altro: «Pensare al porto come qualcosa di diverso da quello che è che è stato da sempre, e farlo diventare competitivo anche in ambiti meno stressanti di quello delle merci movimentate». Per esempio puntando, nell’arco di dieci anni, a raggiungere l’autosufficienza energetica con una produzione rinnovabile interna al porto.

Dal futuro sindaco D’Agostino si attende «quello che ho visto in questi sei anni: due sindaci di colore diverso che si sono fatti sentire quando dovevano rappresentare le istanze dei cittadini, ma che avevano ben chiara l’importanza del porto per la città e che hanno sempre saputo fare squadra».

Una collaborazione che ha funzionato entro i confini cittadini, ma che – conclude Serracchiani – è stata carente sullo scenario internazionale: «Il sindaco di Trieste dovrebbe essere il primo ambasciatore del porto, ma per farlo bisogna muoversi, tessere relazioni con istituzioni e capitali europee. Quello che occorre oggi è un nuovo dinamismo, la capacità di offrire» anche all’esterno «un ‘sistema città’ che metta assieme Comune e Autorità portuale».

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