«Adesso comincia il terzo turno», dice Jean-Luc Mélenchon. Rimasto fuori per un soffio dal ballottaggio, e forte dell’elettorato giovanile che ha saputo mobilitare, il convitato di pietra del secondo turno delle presidenziali prova a ricomporre a suo favore il quadro politico ora che bisogna scegliere il primo ministro. Il leader della France insoumise, abituato già dalle presidenziali 2017 a tenere comizi proiettando il proprio ologramma in più luoghi simultaneamente, stavolta ha concentrato su di sé più consenso che mai. E tenta di proiettare il suo ologramma nel posto più scomodo per Emmanuel Macron: nei luoghi di governo.

L’ipotesi della coabitazione

Le legislative di giugno, «il terzo turno» come lo chiama Mélenchon, sono l’altra elezione che conta, per comprendere la direzione che la Francia prenderà. Il 12 e 19 di quel mese i francesi rinnovano per cinque anni i membri dell’Assemblée nationale, e da questi 577 deputati eletti deve emergere una maggioranza che dia la fiducia al primo ministro, nominato dal presidente della Repubblica. Certo, in Francia, che è una repubblica semipresidenziale, il presidente ha molto potere, e il parlamento ne ha sempre meno: sette anni di stati di emergenza, tra terrorismo e pandemia, e cinque anni di èra Macron, ne hanno ulteriormente infragilito le prerogative. Ma il coinquilino dell’Eliseo sa di dover in qualche modo spartire il potere esecutivo con il primo ministro, che è lui a nominare, ma sulla base dei risultati delle legislative. Ecco perché gli assetti della Francia si chiariranno da qui a giugno: bisogna mettere in conto l’ipotesi di una coabitazione, e cioè di un primo ministro espresso da una maggioranza dissonante con l’Eliseo.

Un quadro da ricomporre

Inoltre è con le elezioni legislative che il quadro politico si ricompone, dopo che le ultime due presidenziali hanno ridotto ai minimi termini prima i socialisti (Benoît Hamon nel 2017 ha incassato il sei per cento, Anne Hidalgo in questo primo turno meno del due) e poi i repubblicani: domenica 10 aprile la candidata dei Républicains, Valérie Pécresse è rimasta sotto il cinque per cento, la soglia minima anche solo per i rimborsi delle spese elettorali. Per scegliere l’inquilino dell’Eliseo, gli elettori si sono concentrati sulle personalità con più chance, e al contempo il quadro si è polarizzato. Ora il paesaggio politico deve trovare un suo assetto più maturo.

Il capitale politico a sinistra

Jean-Luc Mélenchon esce dalle presidenziali in una posizione privilegiata: con il suo 22 per cento al primo turno, solo per poco più di un punto di distanza da Marine Le Pen non ha sfidato Macron al ballottaggio. E il suo bacino di voti è ingombrante, anche perché è un capitale politico che guarda al futuro: è di gran lunga lui il candidato preferito dai giovani.

Lo ha scelto il 31 per cento degli elettori tra i 18 e i 24 anni, e ben il 34 per cento tra i 25 e i 34. La ragione di questo consenso giovanile è la stessa che trainerà Mélenchon alla guida di un fronte compatto di sinistra: anche se è sulla scena politica da lungo tempo, ha rimpinguato con figure giovani la sua squadra e soprattutto ha saputo introiettare i temi ambientali dentro un programma di sinistra radicale.

Come hanno dimostrato le manifestazioni degli studenti nelle settimane delle presidenziali, c’è una fascia di francesi che vuol fare barriera all’estrema destra ma che non si riconosce nelle politiche neoliberiste di Macron. Di fronte a un parterre variegato di candidati di sinistra ed ecologisti, che non hanno saputo né voluto trovare una sintesi, gli elettori hanno unito il campo a modo loro: hanno votato il candidato con più chance, cioè Mélenchon.

Annientare e poi riunire

Ora che i suoi avversari dello stesso campo escono dalle presidenziali ridotti ai minimi termini, il leader “insoumis” offre una ricomposizione da una posizione di forza: al centro lui, che spedisce messaggi di dialogo anche a verdi e comunisti, e poi quel che resta delle macerie socialiste. Questo almeno è il suo piano: un «blocco popolare» contro «quello liberista», con chi ci sta, «superando i rancori». «Niente mi rinvigorisce quanto la lotta», dice proiettandosi verso le legislative. Che però non sono le presidenziali: il partito socialista nei territori è radicato. Sono particolarmente significativi i segnali arrivati negli ultimi giorni, su un dialogo in corso tra “insoumises” e socialisti. Quel che resta del partito, e cioè la parte che non è già confluita tra i macroniani, ha votato il 20 aprile un documento per aprire i negoziati con Mélenchon. Il quale a sua volta, tramite il fido Manuel Bompard, si dice pronto a superare le vecchie resistenze purché i socialisti si allineino alla sua piattaforma: «Sono pronti a sostenere la pensione a 60 anni?», per dirne una. La storia di Mélenchon è una storia di competizione coi socialisti, prima da dentro e poi da fuori. Nel 1997 è stato in lizza come segretario contro François Hollande, e con lui non solo ha perso ma ha rotto: «Voleva vederci umiliati, non glielo perdonerò mai». A inizio Duemila, da dentro il partito socialista, ha accusato «la socialdemocrazia europea di assecondare il neoliberismo»; all’epoca di Ségolène Royal candidata, lui è andato “in cerca di sinistra” (titolo del suo libro del 2007) e per cercarla l’anno dopo è uscito dal partito. «Non possiamo prestare il fianco alla destra».

Quale luna di miele

La condizione perfetta per un presidente neoeletto è quella che i politologi chiamano «la luna di miele con l’elettorato»: dopo un bagno di consensi alle presidenziali, si spera che gli elettori gli regalino anche una maggioranza parlamentare gradita. Ma stavolta oltre al «fronte repubblicano» contro la destra estrema, c’è ed è cresciuto il «fronte anti Macron» degli insoddisfatti. Perciò ora comincia per l’inquilino dell’Eliseo la vera scommessa: anche senza luna di miele, evitare quantomeno i divorzi. E le coabitazioni troppo complesse da gestire.

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