Oggi gli scozzesi eleggono i 129 parlamentari di Holyrood, l’assemblea la cui stessa esistenza è frutto di una battaglia per l’indipendenza: si insediò nel 1999 grazie a un referendum sulla devolution. Questa «per la Scozia è l’elezione più importante della storia», dice la premier Nicola Sturgeon, e non si riferisce né alla sua sopravvivenza politica né a quella del partito: lei è saldamente al potere dal 2014, lo Scottish National Party (Snp) da tempo ha ormai scalzato i laburisti dalla guida del paese. Anche stavolta non c’è competitor che tenga, è fuori discussione che sarà l’Snp il primo partito. Il punto è con che margine, quanto sarà ampia la sua maggioranza: Sturgeon punta sulle «elezioni più importanti» post Brexit per portare avanti il progetto di un nuovo referendum sull’indipendenza.

Previsioni e posta in gioco

John Curtice, il guru dei sondaggisti di Edimburgo, dice che «l’Snp ha la metà esatta delle probabilità di ottenere una maggioranza assoluta»; se prevalesse l’altro scenario, e cioè se il partito pur prevalendo non avesse da solo i numeri, verranno in soccorso per una coalizione i Verdi, dati al 9 per cento e coi quali le affinità sono molte. Le formazioni tradizionali della politica britannica, qui accomunate dall’opposizione all’indipendenza ma comunque su fronti opposti, non hanno chance: conservatori e laburisti hanno ciascuno il 21 per cento di consensi, i lib-dem l’8. In base a quanto ampio sarà il bagno di voti per l’Snp, l’istanza per un nuovo referendum sarà più o meno forte. C’è già stato un “indy ref” nel 2014 e lo Yes ha ottenuto il 45 per cento; sconfitta dovuta anche alla convinzione che uscire dal Regno Unito avrebbe comportato la exit dall’Ue. Fu il presidente della Commissione europea José Barroso stesso, a febbraio 2014, a dire che sarebbe stato «difficile, impossibile» per una Scozia indipendente rimanere nell’Ue. Peccato che poi David Cameron abbia indetto il referendum su Brexit: gli scozzesi, i più europeisti del Regno, scelsero il Remain con il 62 per cento. E ora si ritrovano fuori dall’Ue, loro malgrado: perciò è dal 2017 che Sturgeon propugna un altro “indy ref”, apripista di un ritorno in Europa. La posta in gioco è alta; Neill Walker è abituato a guardarla ad altezza autobus: «Mi sto spostando da un evento elettorale all’altro». Documenta per immagini le campagne di ogni schieramento, ha un archivio che da solo scrive la storia della lotta per l’indipendenza. «Al referendum del 2014 ci fu una grande mobilitazione civica: mentre altrove emergeva il populismo aggressivo di destra, qui tutti, giovani, anziani, sui social, sui bus, discutevano della prospettiva di una Scozia più equa e giusta». È quello che Ben Macpherson, l’ex ministro scozzese per l’Europa, chiama «nazionalismo civico, europeista e accogliente». Ora Walker fotografa una campagna pandemica: «Solo da pochi giorni, con l’alleggerimento delle restrizioni, è stato possibile fare il porta a porta. Il più è online». Ma a suo dire è sempre intenso. Per «le elezioni più importanti» Sturgeon ha sul cammino ostacoli.

I contrari e il fattore Covid

Alex Salmond, che nel 2014 dopo la sconfitta all’indy ref si dimise e lasciò la premiership alla sua pupilla Sturgeon, è diventato il suo più acerrimo nemico. Accusato di molestie e travolto dagli scandali sessuali, ha trascinato dentro il groviglio la premier, sostenendo che Peter Murrell, suo marito e leader dell’Snp, avesse ordito trame contro di lui. Non contento, ha fondato un partito indipendentista, Alba, per sottrarre voti al Partito nazionale; peccato che stando alle previsioni otterrà a stento un seggio. I veleni contro la premier arrivano anche dal suo stesso partito, le cui lotte interne per il potere si sono accese sul tema dei diritti Lgbt. Sturgeon ha linee progressiste, asseconda il progetto dell’ala Lgbt dell’Snp per riformare il Gender Recognition Act e consentire così la autodeterminazione del proprio genere dal punto di vista legale. Joanna Cherry, che era stata eletta dall’Snp a Westminster e che è dichiaratamente lesbica, è contraria alla riforma e si è dimessa. Tra gli ostacoli ai piani di Sturgeon il più ingombrante rimane Londra, e i dati sui soldi spesi dai pro-Regno Unito per influenzare la campagna dicono che solo nella scorsa settimana, gruppi anti indipendenza hanno usato decine di migliaia di sterline per persuadere gli scozzesi a votare gli avversari di Snp. Come? Annunci sui giornali, su Facebook. «Vedo sui social teorie cospirazioniste che ricordano QAnon negli Usa; non è la Scozia che conosco» dice Lynzi Leroy, che dirige una galleria d’arte a Leith. Per paradosso, il più grande asso nella manica di Sturgeon si rivela la pandemia: mentre Boris Johnson vagheggiava di immunità di gregge, lei metteva al sicuro il paese con misure tempestive, diceva «mi affido alla scienza» e ogni giorno in video aggiornava i cittadini. Una ricerca che verrà pubblicata oggi dal King’s College di Londra e dall’università di Bristol attesta che i due terzi degli scozzesi hanno piena fiducia nella premier per come gestisce la crisi, mentre il 72 per cento di loro non si fida affatto di Johnson. Se l’Snp vincerà, sperimenterà il reddito minimo universale e la settimana lavorativa da 4 giorni, amplierà il welfare. Ma i poteri sono limitati: la buona gestione di Covid-19 è una spinta a chiederne di più. Se l’Snp stra-vincerà, in caso di indipendenza sarà necessaria una frontiera doganale con l’Inghilterra. E poi c’è il tema della valuta: lascerà la sterlina, entrerà nell’eurozona? L’economista Anton Muscatelli, rettore dell’università di Glasgow, dice che «una transizione simile non è semplice ma è assolutamente fattibile, basti pensare alla scissione cecoslovacca. Serve programmazione, un negoziato accurato con Londra per dividere asset e debito. Ma poi la Scozia potrebbe riorientare la sua intera economia di mercato verso l’Ue e attrarre investimenti».

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