La proposta di riforma del patto di stabilità e crescita presentata questo mercoledì dalla Commissione europea altro non è che una austerity più dialogante, ma austerity resta; quindi per i paesi più esposti, come il nostro, le ricadute ci sono eccome, e sono tagli miliardari.

Giorgia Meloni non ne parla: preferisce il palco della conferenza sulla ricostruzione ucraina, e per lo smacco sui conti lascia la scena al leghista Giancarlo Giorgetti. Ma la sostanza, come spiega il ministro dell’Economia, è che «il governo italiano aveva chiesto con forza l’esclusione delle spese di investimento dal computo. Prendiamo atto che così non è».

Nelle file dei falchi c’è un attaccante di peso e cioè il governo tedesco, che per voce dell’omologo di Giorgetti, il ministro delle Finanze Christian Lindner, ha preso d’assalto la bozza di riforma e non ha mollato l’osso fino al giorno della presentazione ufficiale.

Il risultato è che il nuovo patto di stabilità e crescita nasce già vecchio. Resta una tagliola della spesa pubblica per i paesi con un debito fuori dalla soglia, anche se i governi possono concordare assieme a Bruxelles piani pluriennali (di 4 o 7 anni) che echeggiano l’esperienza del Pnrr: è come se si andasse a discutere di riforme, anche se in questo caso non è per ottenere sussidi né debito comune, ma si tratterà invece su come ridurre il proprio indebitamento nazionale.

Cosa resta del Recovery

Per Paolo Gentiloni, commissario europeo agli Affari economici, che ha dovuto presentare la riforma fianco a fianco col falchissimo Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue, l’obiettivo politico è da sempre quello di elevare a sistema – ovvero di far uscire dal rango di eccezionalità – l’esperienza sviluppata durante la crisi pandemica.

Non a caso in conferenza stampa Gentiloni ha voluto ricordare «la risposta ambiziosa data allo shock pandemico: abbiamo introdotto Sure, Next Generation Eu, i piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr). Ci siamo riusciti perché abbiamo trovato un’unità; ora inizia un nuovo capitolo, e trovare unità sarà altrettanto importante».

Per farla breve, bisogna negoziare coi governi e con l’Europarlamento; dall’aula, il capogruppo Pd Brando Benifei lancia già una sponda al commissario italiano: «Il Parlamento Ue è pronto a mettersi al lavoro per rafforzare la proposta».

Che cosa resta, nella proposta di Bruxelles, di tutte le riflessioni accumulate durante le molteplici crisi affrontate dagli europei, quella finanziaria, quella pandemica? La verità è che le ambizioni si sono ridotte di mese in mese.

Già a novembre 2022 era apparso chiaro che l’idea di una golden rule, entrata nel dibattito, era pure rapidamente uscita dai piani di Bruxelles: «Il nostro orientamento non è di escludere gli investimenti dalle regole fiscali perché non è emerso consenso a riguardo, nonostante il dibattito sul punto sia stato ampio», aveva già chiarito la Commissione Ue.

Del Recovery è rimasta allora l’idea di una negoziazione tra Bruxelles e i governi: per la riduzione del debito i singoli paesi europei potranno elaborare un piano su base pluriennale, di 4 anni che possono diventare 7, che quindi dia più respiro, e costruisca una cornice tale da poter prevedere anche gli investimenti.

Ne sentiremo parlare spesso d’ora in poi, o almeno questo è l’auspicio di Gentiloni, che spera in un dibattito pubblico sui piani: ci saranno «piani fiscali strutturali di medio termine», che la Commissione vuole focalizzati sulla specificità del paese – compreso il suo invecchiamento demografico – ma che dovranno tener conto delle priorità Ue: «alti livelli di investimento per le transizioni verdi e digitali, la bussola comune per la difesa» e così via.

La spinta dei falchi

Le simulazioni della Commissione indicano che l’Italia, nei negoziati con Bruxelles per il suo piano di riduzione del debito, partirebbe da un aggiustamento annuale dello 0,85 per cento del Pil (circa 15 miliardi) su 4 anni, o meglio ancora dello 0,45 su 7 anni.

Tutta questa concertazione tra governi e istituzioni europee non smuove di una virgola però il principio che vigeva prima della pandemia e che tuttora resta: deficit e debito resteranno agli occhi di Bruxelles una parolaccia.

Gli spintoni di Berlino e di Lindner in questo si fanno sentire, visto che è previsto un aggiustamento annuale di mezzo punto di Pil per quei paesi che abbiano oltrepassato il tre per cento nel rapporto tra deficit e Pil, e il 60 per cento nel rapporto tra debito e Pil: quelle soglie invalicabili restano.

Fino al giorno prima della presentazione dei commissari, Lindner, che aveva già affollato la buca delle lettere della Commissione coi suoi documenti informali, ha tuonato sul Financial Times che «le regole fiscali vanno rafforzate, non diluite».

Chiaramente non bastano un ministro o un governo per dirottare un continente, ma per la commissione von der Leyen Berlino è valsa spesso un cambio di rotta: ricordiamo il boicottaggio del tetto ai prezzi del gas o le deroghe all’ultimo sugli e-fuels. Ora alla lista si aggiunge l’inscalfibile inclinazione all’austerità.

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